22 Luglio 2011 1 commenti

Combat Hospital – ER si trasferisce in Afghanistan di Marco Villa

Metti un ospedale da campo e due dottorini freschi di laurea

Copertina, Pilot

Questa sarebbe una bella occasione per fare un post di quelli seri, intellettuali e capaci di dimostrare la profonda conoscenza mediatica degli autori di Serial Minds. Potrebbe essere un post in grado di aprire mondi e connessioni all’interno della cultura pop e dell’audiovisivo. Perché Combat Hospital altro non è che un aggiornamento ai giorni nostri di M*A*S*H, già film e serie televisiva negli anni ’70. Sarebbe bello poter fare paralleli e confronti. Ma non succederà. Potrei dirvi che non lo faccio perché preferiamo evitare cose pesanti eccetera eccetera. In realtà non lo faccio perché non ho mai visto M*A*S*H e di sicuro non mi ci metto per scrivere la recensione del pilot di Combat Hospital.

I più scaltri di voi avranno già intuito che il titolo della serie indica il luogo in cui tutti si svolge, ovvero un ospedale da campo. Per la precisione, siamo a Kandahar, in Afghanistan, anno di grazia 2006. Se la scelta di retrodatare il tutto mette gli autori al riparo da eventuali ritiri-lampo del buon Barack o improvvisi cambi di scenario che annullerebbero il senso stesso del telefilm, purtroppo questo escamotage non li salva dal rischio enorme che tutti i medical corrono da qualche anno a questa parte.

Ormai lontani i tempi d’oro di ER, ormai ipotecato dal dottor House il genere “medico stronzo”, a chi vuol fare medical resta solo una strada: Grey’s Anatomy. Non è un caso che, negli ultimi anni, di medical cazzuti non ne siano partiti. Oltre all’anatomia della Grey, si possono citare Private Practice e Off the Map, entrambi firmati Shonda Rhimes ed entrambe delle cagate colossali, il secondo in particolare.

Proprio con Off the Map, Combat Hospital condivide l’impostazione “medici in posti assurdi”, ma a confronto di quello che è uno dei peggiori telefilm degli ultimi anni, riesce a mantenersi su una decorosa linea di galleggiamento. La trama è sempre quella: due dottorini, un asiatico e una gnocca (Michelle Borth, già vista su questo sito – con pochissimi veli – giusto un anno fa in Tell Me You Love Me), vengono spediti in un luogo tremendo. Quello che hanno studiato non servirà perché solo con la grande palestra della vita e che due palle. La storia è sempre quella. Tutto dipende dal tono. E il tono pare sia stato azzeccato: forte attenzione ai personaggi, un po’ meno ai casi. Ma casi veri, con operazioni che ricordano – appunto – ER, walk and talk compresi. Un fattore non da poco, che permette di scansare alla grande il rischio di una serie che sfrutta la location medica solo per strappare un po’ di punti patetismo e l’ambientazione esotica per giocarsi anche la carta terzomondista.

Altro aspetto da segnalare è la presenza di accenti di ogni tipo. La serie è di produzione canadese e va in onda in contemporanea negli USA su ABC, ma i personaggi provengono da ogni dove. La protagonista e il capoccia duro-ma-buono-dio-quanto-imparerò-da-lui sono canadesi, il dottore asiatico è ammeregano, il dottore giovane-e-brillante-che-ci-prova-e-sembra-un-cazzone-ma-in-fondo-anche-no è inglese, poi c’è l’australiana e via così. Mancano l’italiano e il francese e possiamo metterci a giocare con le barzellette e Martufello. Cazzate a parte, la cosa è interessante.

Punti di domanda, grossi come una casa, riguardano invece la capacità di tenuta di questi equilibri di tono e il modo in cui verrà gestita la faccenda bellica. Due cose non da poco, ne convengo.

Previsioni sul futuro: la dottorina e il dottorino diventeranno scafati e navigati, superando gli ostacoli posti sul quel cammino pericoloso ma bello che è la vita.

Perché seguirlo: perché medical in cui si vede del sangue (e in cui il sangue non  serve solo per far avvicinare le mani dei medici) sono ormai cosa rara. E poi, Michelle Borth. Oh.

Perché mollarlo: perché purtroppo le serie ospedaliere iniziano sempre nello stesso identico modo. E il rischio deja vu più che un rischio è una certezza.



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