Addio Smallville di Diego Castelli
L’ultimo saluto al non-ancora-Superman
OCCHIO CHE SI SPOILERA DI BRUTTISSIMO!
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Sono in ritardo. L’ultima puntata di Smallville è andata in onda lo scorso 13 maggio, e io arrivo solo ora. Ci sono state altre serie, altre urgenze, telefilm più recenti che era necessario seguire con costanza.
Ma non potevo far fare a Smallville la fine di Brothers & Sisters e Gossip Girl, abbandonate per noia, per ripetitività, o per semplice incapacità di interessare ancora. No, Clark meritava un ultimo sforzo.
Voglio dire subito una cosa, che è importante: Smallville non era ‘sta gran serie. Bella scoperta, diranno in molti. Non era un capolavoro per tanti motivi: un protagonista inespressivo venuto dalla moda, sostanzialmente incapace di recitare; storie spesso troppo telefonate, persino semplicistiche; effetti speciali decenti, ma nemmeno sempre, con troppe scene ambientate in anfratti bui ed eccessivamente finti (specie quando Metropolis è diventata il luogo d’azione regolare); soprattutto, una retorica molto esplicita, in cui i sentimenti sono espressi con disarmante chiarezza, giusto per venire incontro al/alla teenager di CW, che già fa fatica a scrivere e far di conto, figuriamoci affrontare un telefilm troppo sottile.
Sono anche contento che Smallville sia finita, così da lasciare spazio ad altro. Eppure, perché ovviamente c’è un “eppure”, sono qui a scriverne con evidente nostalgia. E anche per questo ho molti motivi.
Cominciai a vedere Smallville dieci anni fa. Ero al liceo, avevo i capelli, avevo i brufoli, non sapevo cosa avrei fatto nella vita, studiavo senza che nessuno mi pagasse per farlo, condizione che rigettai con forza dopo la prima busta paga della mia vita. Mi interessava il personaggio di Superman, e alzai subito le antenne all’annuncio di una serie che ripercorreva le sue prime gesta nella ben nota cittadina campagnola. Così cominciai, benché gli elementi romantico-zuccheroso-adolescenziali della trama fossero da subito ben evidenti. Ma tanto guardavo anche Dawson’s Creek, quindi chissenefrega.
In questi dieci anni, Smallville è sempre stato lì, e se c’è un potere (anzi un superpotere) che i telefilm hanno, è quello di entrare nella tua vita e cominciare a farne parte, non necessariamente come un evento stupefacente e unico, ma piuttosto come un sottofondo caldo e accogliente, che ti tiene compagnia, che ti appassiona per mesi, che ti lascia fare quel che vuoi, dandoti la rassicurante certezza che loro sono sempre lì.
Quasi quasi basterebbe questo per spiegare la mia nostalgia. Tutti i telefilm che segui per più di cinque anni diventano parte della famiglia, fratelli e sorelle magari fastidiosi, ma a cui non puoi che volere bene.
In realtà, ai tanti difetti elencati sopra, Smallville ha sempre risposto con un buon numero di pregi, non sempre riconosciuti dalla critica o da “chi ne sa”. Il merito maggiore, a mio modo di vedere, è stata la voglia di sperimentare. Creando una serie incentrata sulla giovinezza di Superman, senza però voler copiare le saghe di Superboy, Alfred Gough e Miles Millar hanno dovuto prendere una potentissima mitologia moderna e reinventarla, attingendo da essa un materiale pressoché inesauribile, che però andava reinterpretato a fondo.
In dieci anni di Smallville abbiamo visto quasi tutti i personaggi principali del fumetto, inseriti però in una cornice che solitamente non era la loro, con età diverse, obiettivi differenti, origini inaspettate e dinamiche psicologiche e relazionali spesso lontane dalla controparte a inchiostro.
E la sperimentazione è andata crescendo man mano che gli anni passavano, obbligando gli autori ad avvicinare sempre di più il protagonista al suo destino annunciato: la trasformazione nel vero Superman. Clark non poteva rimanere al liceo per una decade (salvo suggerire allo spettatore brutti scenari fatti di deficit cognitivi e difficoltà di apprendimento). È dovuto andare a Metropolis, ha dovuto conoscere il padre biologico Jor-El, ha finito con lasciare indietro la fidanzata della giovinezza, Lana, per conoscere l’amore della vita, Lois. Con la crescita anagrafica del protagonista, gli autori hanno spostato il tiro, trasformando la serie da “giovinezza di Superman” a sorta di “universo parallelo”, in cui Clark diventa un supereroe diverso da quello che tutti si aspetterebbero (The Red-Blue Blur) e che i fumetti non avevano mai contemplato. Una creatività che ha impregnato la serie nel suo complesso, ma che spesso ha influenzato i singoli episodi. Gli sceneggiatori di Smallville non si sono mai limitati a una lunga sequela di capitoli tutti uguali, col cattivo di turno e il consueto sfoggio di superforza. Proprio come nei fumetti, hanno tentato molte vie diverse, puntate speciali, riferimenti incrociati, strizzatine d’occhio al futuro di Clark, guest star d’eccesione – penso al povero Christopher Reeve, l’unico e vero Uomo D’acciaio del cinema, apparso a lungo nella serie prima della morte, o anche a gente come Dean Cain, che era Superman in un’altro telefilm, o Teri Hatcher, già interprete di Lois Lane e qui ingaggiata per fare la madre della futura giornalista.
Non è sempre andata bene: alcuni episodi che potevano essere interessanti si sono rivelati mezze ciofeche, e certe svolte sono apparse troppo inverosimili. Soprattutto, l’addio alla serie di Michael Rosenbaum ha privato Smallville di Lex Luthor, creando un vuoto enorme, mai veramente colmato, tanto che i riferimenti al cattivone pelatone sono sempre stati massicci e insistenti, come se Superman non potesse esistere senza la sua più famosa nemesi (e molti direbbero che è proprio così).
Eppure, anche l’addio di Lex è stato metabolizzato con l’ingresso di nuove figure, di nuovi tentativi, di nuovi azzardi. Il risultato di tutto questo è una serie non sempre precisa e stabile, ma anche pienissima di eventi e sorprese, il cui cast delle ultime puntate non comprende praticamente nessun attore/attrice delle prime. Un viaggio molto lungo, non sempre agevole, ma che alla fine regala allo spettatore quella sensazione di grandiosità che solo i telefilm più longevi e complessi riescono a dare.
E poi c’è il volo. Gough e Millar decisero a suo tempo che Clark non avrebbe mai volato. Doveva essere il tratto distintivo del telefilm rispetto ai fumetti e ai lungometraggi, dove Superman se la sfreccia allegro tra i grattacieli. La coerenza su questo punto è stata quasi maniacale, a costo di arrivare al ridicolo quando Clark ha cominciato a trovarsi circondato da gente che volava, mentre lui poteva solo “saltare molto in alto”. Alla fine, però, gli spettatori sono stati accontentati, e non poteva essere diversamente. Nell’ultimo episodio, succede quanto di più scontato poteva esserci, ma che in fondo tutti volevamo. Clark indossa il suo vero costume, il suo rosso mantello, e perdio, vola! Il suo staccarsi da terra era diventato, metaforicamente, l’ultima prova da superare, il segno che il ragazzo di campagna aveva davvero lasciato il posto all’eroe che era destinato a diventare. Un concetto che, come dicevo prima, ci hanno spiegato in maniera fin troppo evidente, tirando dentro anche il fantasma del padre adottivo senza nessun valido motivo. Ma fa niente. Fa niente perché, alla fine di tutto, nell’ultimissima scena, Kent fa quello che deve fare: sente col superudito una richiesta d’aiuto, corre sul tetto del Daily Planet sulle note della mitica colonna sonora di John Williams, e si apre la camicia mostrando la S sul petto (occhio alla foto-spoiler).
Prendete appunti, ragazzi, perché è così che si chiude una serie: facendo crescere l’aspettativa per dieci anni, fino a dare agli spettatori esattamente ciò che vogliono. È per questo che siamo qui, è per questo che abbiamo cominciato a guardare i telefilm invece che andare a giocare al fottuto pallone.
Grazie Clark, a volte avrei preso a sberle quella tua faccia da manichino, ma Thor mi fulmini se non mi mancherai almeno un po’…