21 Gennaio 2025

ACAB: La serie – Su Netflix i poliziotti incasinati di Stefano Sollima di Diego Castelli

Il seguito del film del film del 2012 ci riporta fra le luci (poche) e le ombre (molte) di una squadra di celerini romani

Pilot

Era il 2012 quando Stefano Sollima, all’epoca già navigato regista televisivo ma ancora a digiuno di cinema, sbarcò sul grande schermo con ACAB – All Cops Are Bastards, che sarebbe poi diventato il primo capitolo della cosiddetta “trilogia della Roma criminale”, poi completata con Suburra (2015) e Adagio (2023).

Il film raccontava in particolare di tre celerini, agenti antisommossa della Polizia, che vivevano una vita di stress, violenza e decisioni discutibili, in un racconto delle forze dell’ordine italiane che non poteva che essere particolarmente sfaccettato e pieno di luci e ombre.

Più di dieci anni dopo, quando Sollima si è fatto una solidissima carriera anche al cinema e può permettersi di fare il “produttore figo”, arriva ACAB – La serie, sequel del film e nuovo scorcio su un mondo poliziesco ben lontano da certe sfumature edulcorata della più tradizionale fiction italiana.

La trama segue una squadra di celerini che, dopo un intervento controverso (eufemismo) in Val di Susa contro un presidio No Tav, perde il suo capo carismatico, ferito in servizio, e si vede affidare un nuovo superiore, Michele Nobili (Adriano Giannini), che ha fama di essere uno che in passato ha “tradito” i suoi, denunciando alle autorità abusi compiuti dai colleghi.

Del gruppo fanno parte, fra gli altri, una vecchia conoscenza del film, ovvero Mazinga, interpretato da Marco Giallini, e Marta (Valentina Bellè), unica donna della squadra, segnata da una vita incasinata con una figlia quasi adolescente e un ex marito violento.

Tutti i personaggi, comunque, hanno la loro dose di casini: Pietro (Fabrizio Nardi), il poliziotto ferito, ha un matrimonio in crisi che il suo ferimento non migliora, Nobili ha un rapporto complicato con la figlia, Salvatore (Pierluigi Gigante) è un celerino troppo esaltato con forti problemi relazionali con le donne, e via dicendo.

La serie, diretta da Michele Alhaique, è consapevolmente priva di grandi sfumature di tono: è buia, incarognita, complessata, non c’è praticamente mai un momento di vero alleggerimento, e ogni problema dei protagonisti viene decuplicato dalla presenza contemporanea di mille altre questioni sempre più gravi.

In questo senso, il lavoro sul campo fatto di scontri con manifestanti e tifosi, e in cui i poliziotti possono trovarsi in ogni momento a diventare vittime o carnefici di una violenza per lo più insensata, si accompagna alle indagini interne delle istituzioni per evidenziare eventuali abusi (la trama fa perno sull’accusa di violenza eccessiva nei confronti di un manifestante in Val di Susa), e ai problemi personali che diventano via via più pressanti.

Produrre una serie tv sulle forze dell’ordine in Italia è rischioso anche solo per i due estremi in cui si può facilmente finire: l’agiografia pucciosa da fiction generalista, oppure la condanna senza se e senza ma di un sistema che, in quel caso, verrebbe rappresentato come marcio fino al midollo.
A un primo sguardo, ACAB sembrerebbe più spostata verso il secondo estremo, ma in realtà la sceneggiatura punta a problematizzare una vita effettivamente difficile, dove uno spirito di corpo necessario a mantenere una banalissima stabilità mentale è anche la base di possibili esagerazioni, sbandate, abusi.

In questo senso, il maggior successo di ACAB è quello di evitare una stucchevole divisione fra buoni e cattivi, preferendo anzi una continua compenetrazione.
Senza fare spoiler, agli spettatori viene offerta la possibilità di farsi un’idea “mista” di quasi tutti i personaggi: chi parte fra i buoni tende a scivolare almeno una volta nell’oscurità, mentre chi all’inizio pareva più inquietante, ha modo di svelare anche lati più adificanti o, magari, abbastanza fragili da stimolare una qualche forma di empatia e compassione.
E lo stesso vale per le masse umane contro cui i poliziotti di volta in volta si schierano: non sempre povere vittime innocenti, non sempre barbari senza cervello.

L’intento, dunque, sembra essere quello di far emergere un’umanità vera dei protagonisti, nel racconto di un lavoro complicato, difficile, stressante, a volte perfino proibitivo, comprendendo quindi gli errori di chi ci si trova in mezzo, senza però poter condonare tutto, perché sempre di servitori dello Stato si sta parlando.

Dal punto di vista tecnico e visivo, la serie si difende pur non dando l’impressione di avere alle spalle un budget clamoroso. Siamo quasi sempre in luoghi chiusi, raccolti e abbastanza spogli, tutto sommato coerenti con la trama, ma forse anche imposti da una produzione non ricchissima.

Questo però non significa che le scene d’azione non siano coinvolgenti, e che la tensione costante non possa essere suggerita da una fotografia quasi noir e da un lavoro molto buono sugli attori e sui loro volti, spesso inquadrati molto da vicino in tutta la loro sofferenza.
Un approccio che, naturalmente, puoi permetterti anche e soprattutto quando hai interpreti di spessore. In questo caso, in cima a tutti stanno Giallini, che è una mezza leggenda già di suo, e Valentina Bellè, che recentemente avevamo già apprezzato in The Good Mothers, e sembra nata per interpretare qualunque personaggio immolato al #maiunagioia.

Se volessimo trovare un difetto vero ad ACAB – al netto della pura soggettività che, in una serie come questa, può anche venire respinta dalla complessiva, enorme pesantezza dei toni e dei sentimenti – citerei una certa compressione della vicenda.

Se talvolta (anzi, spesso) ci capita di parlare di serie in 10 o 12 episodi in cui si sarebbe potuto accorciare serenamente di qualche puntata, i sei capitoli di ACAB sembrano pochi, perché la quantità di personaggi e vicende personali, alcune molto drammatiche e di grande potenza, avrebbe forse beneficiato di un respiro maggiore, una “serializzazione” più compiuta, che poi è il vero vantaggio quando si tratta di raccontare per episodi.

Poi certo, si potrebbe anche obiettare che avere otto-nove episodi con questo livello di oscurità e dramma avrebbe fatto finire gli spettatori in depressione, e anche questo è un tema da non sottovalutare.

Nel complesso, ACAB è una buona serie. Magari non è un capolavoro, e l’uscita più o meno contemporanea di un’altra serie italiana di grande impatto come M – Il Figlio del Secolo non l’ha aiutata a trovare grande risonanza. Però è un prodotto adulto, maturo, con un’immagine cinematografica abbastanza gagliarda da essere esportabile pur senza perdere la sua anima “local”, e in questo si inserisce bene in un catalogo di Netflix di cui, tutto sommato, può rappresentare una punta lodevole, superiore a quella che ormai è la media di una piattaforma diventata fin troppo generalista.

Poi naturalmente il tema etico e politico di come la polizia italiana viene rappresentata sul piccolo schermo potrebbe aprire dibattiti molto più accesi e complicati, senza contare il peso che questo tipo di valutazioni potrebbe avere nella volontà di ognuno di noi di accogliere o rigettare una serie come questa.
Se però ci atteniamo al dato tecnico, provando a guardarla con occhi “esteri”, se vogliamo dire così, allora beh, abbiamo visto di mooolto peggio.

Perché seguire ACAB – La Serie: è un prodotto solido, appassionante, piuttosto potente.
Perché mollare ACAB – La Serie: un paio di episodi in più avrebbero dato un respiro migliore a una molteplicità di storie che possono apparire un po’ compresse.



CORRELATI