14 Gennaio 2025

Asura su Netflix – Corna, famiglia e delicatezza giapponese, firmato Kore’eda di Diego Castelli

Le sinossi ufficiali di Asura non rendono giustizia al sottile ritratto di famiglia diretto dal regista Palma d’Oro

Pilot

Nei giorni scorsi è uscita su Netflix una nuova serie giapponese che, in quanto tale, è stata poco pubblicizzata in Occidente rispetto ad altre produzioni anglofone, ma perfino rispetto ad altri show giapponesi che magari, dato un piglio più action o fantasy, speravano di trovare subito un pubblico anche dalle nostre parti.

Forse è stata una leggerezza, considerando che l’autore della miniserie, da lui scritta e diretta, è Hirokazu Kore’eda, già Palma d’Oro a Cannes nel 2018 per Un Affare di Famiglia, e quindi regista già conosciuto in Occidente, con una significativa nicchia di appassionati cinefili che gli vogliono un gran bene.

Per i giapponesi, molto più che per noi, Asura è una storia già sentita. È tratta dal romanzo Ashura no Gotoku di Kuniko Mukoda ed è già stata adattata altre due volte, in una miniserie del 1979 e in un film del 2003.
È però una storia che sembra perfetta per Kore’eda, il cui lavoro è da sempre incentrato sui temi della famiglia, della colpa, del lutto, dei rapporti fra genitori e figli.

Protagoniste sono le quattro sorelle Takezawa, molto diverse ma anche molto unite, che vengono a scoprire una scomoda verità: il loro anziano padre ha un’amante da anni.
A scoprirlo è la bibliotecaria single Takiko (Yu Aoi), che si avvale di un investigatore privato e riunisce poi le sorelle Tsunako (Rie Miyazawa, vedova e insegnante di ikebana), Makiko (Machiko Ono, casalinga sposata con due figli), e Sakiko (Suzu Hirose, giovane cameriera fidanzata con un pugile), per decidere cosa fare.

Per evitare di farsi male, bisogna immediatamente ripulire il cervello da qualunque aspettativa che una sinossi come quella di Asura potrebbe infilare dentro la nostra mente di spettatori occidentali.
Che si tratti di un dramma o di una commedia (e Asura sa essere entrambe le cose), nel sentire parlare di tradimenti nascosti non possiamo che immaginarci una certa dose di suspense, equivoci, sorprese, urla, litigi, e una generale esasperazione delle vicenda in nome dello spettacolo e della continua solleticazione dell’attenzione.
Questo senza nemmeno pensare a cose tipo Bad Sisters, in cui ci si ammazza e si scappa dalla polizia.

In Asura, questa cosa non è (quasi) mai vera, nella misura in cui la faccenda del tradimento del padre è per lo più un pretesto narrativo usato non per esacerbare i toni e creare scontri violenti, bensì per procedere a un’esplorazione della vita, dei sentimenti, delle contraddizioni delle protagoniste, inserite in una cornice (la società giapponese del 1979) che oggi ci suona vecchia e arcaica, ma che i personaggi vivono molto semplicemente come “casa loro”.

Da questo punto di vista, Kore’eda non si concentra sul potenziale conflittuale della storia, che anzi viene sistematicamente depotenziato e disinnescato ogni volta che rischia di diventare troppo feroce.
Questo vale per la vicenda in sé, ma anche per il ruolo che le donne della serie ricoprono nella cultura in cui vivono: in questi episodi c’è abbastanza patriarcato (inteso come regole che le donne devono seguire, e assoluzioni che ai maschi è possibile concedere) da fomentare cento serie occidentali incazzate, ma il riscatto sociale e la difesa di valori contemporanei non è al centro di un racconto che, col piglio documentaristico caro a Kore’eda, vuole trasmetterci una verità di sentimenti e relazioni che sia effettivamente figlia del tempo della storia.

Da questo punto di vista, a contare non è tanto sto famigerato tradimento, né il fatto che tutti stressino Takiko perché non s’è ancora trovata un marito. Al centro di tutto, invece, c’è il modo in cui il complesso rapporto fra le sorelle, ognuna a suo modo tesa fra tradizione e modernità, fra amore e sdegno, fra educazione e rabbia, permette loro di assorbire le notizie più difficili e lo srotolarsi di un tempo inesorabile, che trascina ogni cosa con sé e finisce con il mettere tutto in prospettiva.

Senza fare troppi spoiler, possiamo dirci che la vicenda inizia con questa inaspettata notizia relativa al padre, ma tutte le sorelle, presto o tardi, avranno a che fare con storie di tradimenti, veri o presunti, compiuti o subiti, in un gioco che mescola continuamente l’umanità dei personaggi e il loro appartenere a una società molto codificata e piena di regole.

Non è però, come detto, la storia di una o più ribellioni all’ordine costituito. In Asura non c’è conflitto o tensione che non possa essere continuamente diluito, calmierato e ricomposto attraverso un pasto consumato insieme (non fanno altro che mangiare in questa serie), o la rievocazione di ricordi di famiglia, o perfino il semplice parlare d’altro.
Lo scorrere del tempo, in Asura, contribuisce a mettere sempre tutto in prospettiva: la preoccupazione di oggi non sarà quella di domani, e l’antico e il moderno continuano a confluire uno nell’altro, presentando continui problemi alle protagoniste, ma offrendo loro anche una prospettiva più ampia.

Per certi versi, Asura sembra voler contravvenire all’antico adagio hitchcockiano per cui il cinema racconta la vita, ma senza le parti noiose. Ecco, in Asura ci sono anche le parti “noiose”, il chiacchiericcio fine a se stesso, il pasto conviviale in cui si parla del nulla: sono momenti a cui viene dato il compito di raccontare una vita in cui le forti emozioni (che pure ci sono) non possono occupare la totalità del tempo delle persone, che inevitabilmente si adattano, evolvono, passano oltre.

Se la giudicassimo con occhi strettamente occidentali, Asura potrebbe sembrare un pessimo compito di sceneggiatura seriale, un racconto lento e pacato (e potenzialmente molto noioso) in cui buona parte dei conflitti più succosi viene rigorosamente non-sfruttato.
Se però proviamo a spostarci un po’ di lato, assumendo una prospettiva diversa, allora possiamo scoprire il fascino di una grande poesia, malinconica e nostalgica, in cui gli screzi fra caratteri molti diversi si sciolgono nella rappresentazione di una sorellanza dal sapore antico e immutabile, un amore familiare incrollabile che tutto assorbe e tutto supera.

Per dirla in altro modo, forse più terra terra, Asura è una serie di cui si può sentire la pesantezza, ma che ci porta ad amare le sue protagoniste (le attrici tutte bravissime, peraltro) in una maniera che non c’entra col classico eroismo occidentale, fatto di azione, tensione, grandi decisioni e grandi discorsi. Asura è lontana da noi quanto può esserlo il Giappone del 1979, eppure ci è tanto più vicina quanto più ci accorgiamo, episodio dopo episodio, che comprendiamo la sua realtà, la sua concretezza, la sua capacità di cogliere qualcosa di come viviamo concretamente la maggior parte delle nostre vite.
Vite che, a quel punto, non sono né passate né giapponesi, ma semplicemente umane.

Perché seguire Asura: per come unisce interesse storico e profonda umanità, realismo e nostalgia.
Perché mollare Asura: se non si riesce a spostarsi almeno un po’ dal gusto hollywoodiano, la noia è dietro l’angolo.

PS EDIT Non ho so come ho fatto a dimenticarmi, considerando che ne avevo scritto io, che mi era piaciuta, e che per certi versi presenta passo e approccio molto timili a quelli di Asura, ma bisogna ricordare che Kore’eda nel 2023 aveva già realizzato per Netflix Makanai – Cooking for the Maiko House, che era un altro gioiellino.



CORRELATI