10 Gennaio 2025

American Primeval – Un selvaggio West davvero selvaggio di Diego Castelli

Su Netflix il breve ma intenso viaggio di un western che non fa sconti a nessuno

Pilot

Beh raga, zitto zitto questo 2025 è iniziato mica male.
Questa sera, 10 gennaio 2025, esce ufficialmente M – Il Figlio del Secolo, di cui abbiamo già parlato e che sarà una serie assai importante di tutto quest’anno.
Nel frattempo, però, il 9 gennaio sono uscite diverse novità interessanti, e la prima su cui ho posato gli occhi si è subito rivelata una bombetta non indifferente.

Parliamo di American Primeval, disponibile su Netflix. Una miniserie western in sei episodi, scritta da Mark L. Smith, già sceneggiatore di The Revenant, e interamente diretta da Peter Berg, diventato (giustamente) famoso come creatore di Friday Night Lights.
Per dircelo subito, un gioiellino da tenere caro vicino al cuore.

Siamo nello Utah del 1857, con gli Stati Uniti già ben esistenti ma non ancora nella forma che conosciamo oggi, a pochi anni dalla guerra civile.
La storia è ambientata in un piccolo ma trafficato territorio in cui si intrecciano numerosi interessi: ci sono avventuriere e migranti in cerca di fortuna, mormoni che vogliono costruire una comunità a forti tinte religiose, l’esercito degli Stati Uniti che non vede di buon occhio chi cerca di arrogarsi diritti e poteri slegati dalle istituzioni ufficiali, e infine i nativi americani (che qui ovviamente sono ancora “indiani”) che vivono ormai da molto tempo la tragedia di una vita sconvolta e distrutta dall’arrivo di stranieri giunti dall’altra parte dello oceano.

La trama viene vista soprattutto attraverso la prospettiva di Sara (Betty Gilpin), una donna che attraversa l’Ovest con il figlio appena adolescente, per raggiungere il marito al di là delle montagne.
Non è un grande spoiler dire che Sara incontrerà pericoli inaspettati e altrettanto inaspettati aiuti, e dalla sua vicenda faremo poi la conoscenza di altri personaggi importanti: Isaac (Taylor Kitsch), un solitario uomini dei boschi, sopravvissuto di professione; Bridger (Shea Whigham), capo di un forte solitario e autogestito; il governatore Young (Kim Coates, buon vecchio Tig di Sons of Anarchy), un politico mormone che manovra per avere un potere assoluto a dispetto del governo ufficiale; Abish (Saura Lightfoot-Leon di The Agency), una neo-moglie mormone che si trova a disagio nella sua vita coniugale e a cui ne succederanno di tutti i colori; e altri ancora.

American Primeval è improntata a un violento realismo (o, almeno, quello che percepiamo come realismo) e ci mostra un selvaggio West brutto e cattivo, in cui uno dei nuclei narrativi fondamentali è la descrizione di un luogo di frontiera in cui l’autorità e le leggi non sono del tutto stabilite: ognuno risponde ad autorità diverse e si muove per interessi diversi (economici, religiosi, ancestrali), con l’inevitabile conseguenza di continui scontri.

Quella di American Primeval è un’umanità in cui la mancanza di una forte autorità politica e giudiziaria mostra la leggerezza della corrispondente autorità morale, che ognuno deriva da punti diversi e interpreta come vuole. La lotta spietata per il potere e il denaro si traduce in battaglie continue, violenza cruda e deplorevole, promesse fasulle e tradimenti veri che impongono a ogni personaggio di guardarsi sempre le spalle.

Il tutto in un ambiente che, a sua volta, è un nemico per tutti: il fango, il freddo, la neve, il fuoco, i lupi, sono elementi di caos che arrivano a distruggere e ribaltare le poche sicurezze e le fragili alleanze dei personaggi, sottolineando un altro tema della miniserie (e di molte storie di frontiera in generale): la necessità di uno sforzo sovrumano per dominare la natura, ma non solo quella esterna, anche la natura umana nella quale, senza uno specifico raziocinio, dominano gli impulsi più istintuali.
L’elemento primitivo – presente anche nel titolo della serie – è il grande nemico contro cui tutti i personaggi devono combattere, che lo vogliano o meno, per pensare di vivere una vita che sia giusta e civile.

In questa cornice, la sceneggiatura funziona alla perfezione perché riesce a toccare sia le note più estreme, sia quelle di mezzo.
Da una parte, la malvagità è malvagità vera, feroce, spietata. Ma anche l’amore di Sara per suo figlio è altrettato feroce. Così come la dignità di certi uomini che, pur temprati dalla vita e messi a durissima prova, non possono rinunciare a una nobiltà d’animo che li identifica e gli permette di dare senso alle loro vite, fino a sfociare nel vero e proprio eroismo.

Dall’altra parte, però, ai personaggi è permesso di cambiare, di evolvere, di trovare le sfumature: per esempio Sara, inizialmente simbolo di fragilità e amore materno (pur con qualche dettaglio ulteriore che viene sottolineato fin da subito), verrà chiamata a tirare su la sottana e imbracciare la pistola, trovando una mediazione fra il ruolo che sente giusto per lei (e che la società cerca di insegnarle), e quello che invece dovrà ricoprire in un contesto che non permette facili debolezze.

Non stiamo parlando di cose particolarmente originali, in sé e per sé, ma si tratta di riconoscere l’abilità di gestire molti personaggi e molte fazioni, trovando il tempo di dare a praticamente ogni personaggio la possibilità di veder sconvolto il proprio mondo, permettendoci di assistere alle sue reazioni, alla sua lotta per la sopravvivenza, fisica, mentale, morale.
E non c’è praticamente alcuna sbavatura in tutta questa impalcatura, a parte alcune scelte facili e vagamente politically correct (ovviamente i personaggi meno colpevoli sono i nativi americani), e alcuni sacrifici abbastanza prevedibili, ma quasi sempre gestiti con il tempismo giusto e pathos a manciate.

E se abbiamo elogiato la scrittura, ora dobbiamo applaudire anche la regia di Peter Berg.
Come accennato, quello di Berg è un West duro e sporco, caotico e pericoloso, in cui i personaggi vengono costantemente immersi nel buio della notte, nel gelo dei boschi, nella tensione degli scontri a fuoco. Abbiamo sempre la precisa percezione che ci possa essere qualcuno o qualcosa nascosto nell’ombra che possa saltare addosso ai protagonisti.

Quando succede, poi, Berg preme sull’acceleratore, con scene di violenza davvero cruda che però non sono mai fini a se stesse, ma sempre pensate e collocate per accrescere il senso di caos e l’urgenza, per i personaggi, di trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto a ciò che erano all’inizio della storia.

C’è un grande lavoro sugli spazi e sugli attori/attrici, a cui viene costantemente chiesto (con buoni risultati) di mettere in scena un contegno d’altri tempi, spesso frutto della paura di apparire deboli, con improvvisi scoppi d’ira e disperazione, in un costante tira e molla che sfinisce i personaggi e gli spettatori (nel senso buono, energetico del termine).
E c’è anche modo di concedersi qualche virtuosismo, come alcuni brevi ma significativi piani sequenza, in cui Berg usa una ripresa senza stacchi per girare come una trottola in mezzo al disordine, le frecce e le pallottole, aumentando il senso di sgomento per un mondo in cui il pericolo è sempre in agguato.

Io non credo che di American Primeval si parlerà “tantissimo”, nella misura in cui appartiene a un genere in cui si pensa di aver già visto tutto quello che c’era da vedere, magari non del tutto a torto.

Allo stesso tempo, però, quando abbiamo televisione di questo livello, televisione che si fa cinema in termini visivi, ma che resta televisione nella capacità di riempire sei interi episodi di storie dense, pregnanti, mai sbrodolate, allora dobbiamo fermarci e dire “beh, ho proprio visto una gran cosa”.

Perché seguire American Primeval: è una miniserie in cui è possibile trovare grande qualità in praticamente tutte le componenti.
Perché mollare American Primeval: solo se proprio odiate il western come concetto.



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