Interior Chinatown – Su Disney+ una deliziosa serie meta di Diego Castelli
È una storia vecchia come il mondo, l’archetipo principale di tanti racconti di genere e non solo: il ragazzo timido e sfigato, chiuso in un mondo senza prospettive, che a un certo punto vede uno spiraglio, una via d’uscita, una “chiamata” (termine spesso usato nelle teorie narratologiche) per esplorare il mondo esterno e vivere mille avventure che cambieranno per sempre la sua esistenza.
Questo è il canovaccio, applicabile più o meno a ogni genere e contesto. E qualche volta, come una pennellata di colore in più, si può decidere di andare consapevolmente fuori strada, creando prospettive nuove, costringendo chi guarda a sputacchiare fuori un “what the fuck?!” proprio quando pensava di aver già capito tutto.
È questo il caso di Interior Chinatown, interamente disponibile con la sua prima (e probabilmente unica) stagione su Disney+.
Creata da Charles Yu a partire da un suo stesso romanzo del 2020, e prodotta fra gli altri da Taika Waititi (che dirige anche il primo episodio), Interior Chinatown racconta di Willis Wu (Jimmy O. Yang), un ragazzo come tanti che lavora come cameriere in un ristorante del quartiere cinese.
Willis vorrebbe una vita migliore, più emozionante, più importante, e invece è costretto a stare nell’ombra di un’esistenza poco interessante, obbligato a guardare il mondo muoversi freneticamente anche se lui è sempre fermo.
Come se non bastasse, sulla testa di Willis pesa il ricordo del fratello maggiore, morto qualche anno prima, che invece era un figo pazzesco, un esperto di kung fu che viveva una vita elettrizzante e piena di prospettive, troncate da una morte misteriosa.
La storia di Willis sembra cambiare quando il ragazzo vede rapire una donna di fronte al ristorante. Ecco l’opportunità, la chance di fare qualcosa di significativo, di essere un testimone utile alla polizia, finalmente al centro dell’azione e non ai margini.
Fin qui tutto bene, e anche tutto normale, saremmo all’interno dell’archetipo puro e semplice di cui si diceva prima.
Solo che qui arriva il twist, di cui ci rendiamo conto piuttosto presto già nel primo episodio.
Siamo dentro una serie tv.
Con ogni evidenza, senza che nessuno ce lo spieghi, di minuto in minuto ci sembra sempre più palese che Willis sia in realtà la comparsa di uno show televisivo, di un crime da CBS, che normalmente lo vorrebbe sullo sfondo ma che improvvisamente gli chiede di venire avanti, sotto i riflettori.
Quando poi compaiono i detective Sarah Green (Lisa Gilroy) e Miles Turner (Sullivan Jones), il gioco diventa esplicito: i due si muovono preceduti dai titoli di una serie tv in stile Law & Order (lo show di cui sono protagonisti si chiama “Black & White”), agiscono come i più stereotipati poliziotti da piccolo schermo, e perfino la fotografia, quando loro sono in scena, cambia e vira verso i colori metallici e stilosi di chi se la crede un casino.
Interior Chinatown (che fin dal titolo rivela la sua natura di “sceneggiatura”) diventa allora un action comedy con ampie spruzzate di giallo, in cui però viene a cadere lo status di realtà dei personaggi. Allo spettatore non viene chiesto di fare finta di essere di fronte alla realtà, ma anzi di tenere le antenne ben dritte per raccogliere tutti i segnali del fatto che quello che sta guardando non ha nulla a che fare con essa.
O meglio, si creano due livelli di rappresentazione. Da una parte la storia criminale in cui effettivamente Willis viene coinvolto, con l’aiuto della detective Lana Lee (Chloe Bennet). Dall’altra la consapevolezza che ci si muove all’interno di un mondo fittizio, una consapevolezza più nostra che dei personaggi, che però utilizzano strumenti che sono evidentemente assurdi, quasi fantasy, continuando però a seguire le regole di un gioco che li lascia almeno parzialmente all’oscuro.
Per esempio, Willis trova molti video del fratello morto, che insieme costruiscono di fatto una narrazione seriale e che sono “impossibili” da un punto di vista tecnico, del piazzamento delle telecamere e via dicendo. E Willis nota questa stranezza, senza però riuscire a fare il salto logico e metatestuale che facciamo noi.
Insomma, la sfida di Interior Chinatown è quella di raccontarci una storia e dei personaggi che siano appassionanti, pur sottolineando in modo esplicito (e quindi potenzialmente “distaccante”) il fatto che si tratta per l’appunto di una storia e di personaggi.
Il gioco funziona nella maggior parte dei casi, perché si accompagna a una buona dose di ironia che alleggerisce il tutto e consente di divertirsi con le piccole e grandi invenzioni metatestuali (tipo Willis che proprio non riesce a entrare nella stazione di polizia, perché è un “personaggio che non può stare lì”, a meno di riuscire a trovare un modo per entrarci rendendo coerente l’idea che un personaggio come lui ottenga l’accesso).
Senza contare poi alcune spalle davvero riuscite come Fatty, interpretato dal comico Ronny Chieng, che nei panni di un amico e collega di Willis al ristorante diventa un serbatoio di gag simpatiche ma pure loro coinvolte nel gioco metatestuale.
Soprattutto, Interior Chinatown funziona perché tutta questa doppia struttura, che richiede una doppia attenzione e una doppia sospensione di incredulità, non suona fatta tanto per fare, ma sembra suggerirci concetti più importanti.
La vicenda di Willis non è solo un esperimento intellettuale, ma anche un ragionamento sull’importanza delle narrazioni, dei filtri attraverso cui vediamo il mondo, facendocene un’idea che per forza di cose non sarà mai troppo aderente alla realtà.
Il mondo di cui Willis vorrebbe fare parte è un mondo finto, che lui stesso conosce solo tramite il filtro dello schermo, e quando ci è dentro si rende conto di quanti inganni e ombre si pongano fra lui e la verità, che alla fine è l’unica cosa che gli interessa.
La stessa volontà di emergere si rivela una lama a doppio taglio, nella misura in cui i riflettori (di qualunque genere essi siano) impongono un prezzo da pagare che non è possibile vedere finché non ci si trova sotto.
In questo senso, tutti i personaggi sono costretti ad affrontare un percorso di conoscenza di se stessi e dell’ambiente in cui si muovono, con il bisogno, per tutti, di arrivare in qualche modo dietro le quinte, unica maniera per trovare una completezza.
Ovviamente, parliamo di una serie molto particolare, espressamente di nicchia, in cui la mescolanza di generi unita al ragionamento meta su di essi chiede un approccio quanto più possibile aperto e accogliente nei confronti della sua creatività e desiderio di giocare con le regole.
Questo però è un intento esplicito e attentamente ricercato, quindi diventa solo questione di gusti. Un filo meno misurata mi sembra la lunghezza: dieci episodi sono probabilmente troppi, perché l’esperimento metatestuale dopo un po’ inizia a girare su se stesso, e le puntate centrali rallentano fino al punto di vivacchiare, forse per arrivare a una quota stabilita in precedenza.
È l’unico difetto che mi sento di trovare a una serie che, comunque, si merita l’attenzione di chiunque abbia a cuore le serie tv che hanno voglia di rischiare e provare qualcosa di nuovo.
Perché seguire Interior Chinatown: una bella idea costruita con tante belle trovate, un cast all’altezza e uno stile intelligente.
Perché mollare Interior Chinatown: se non vi piacciono le deviazioni stravaganti dai generi codificati.