Raising Hope – Finale di stagione di Diego Castelli
E’ finito Raising Hope… ma per fortuna ritornerà!
ATTENZIONE SPOILER SUL FINALE DI STAGIONE
Dopo le molte cancellazioni del mese di maggio, oggi sono ben felice di parlare di una serie nata in questo infausto 2010-2011 e sopravvissuta alla dura battaglia degli ascolti.
Mi riferisco a Raising Hope, la comedy di Greg Garcia che zitta zitta è riuscita a non farsi trascinare nel gorgo dei molti fallimenti.
Avevamo già spiegato perché lo show andava considerato una delle migliori novità di questa stagione: perché era riuscito a raccogliere l’ideale testimone dell’altro grande successo di Garcia, My name is Earl, ereditandone lo stesso gusto per il surreale, lo stesso amore per i simpatici bifolchi, la stessa voglia di stupire e divertire con trovate comiche di grande inventiva e poca o nulla volgarità.
Al termine del primo ciclo di episodi, possiamo confermare le buone impressioni avute all’inizio, con una considerazione in più: Raising Hope sottolinea una volta di più l’insofferenza di Garcia nei confronti delle storie precise e strutturate, con un concept troppo rigido. Il buon Greg preferisce di gran lunga creare un sistema di personaggi e di relazioni reciproche che si sviluppa in modo abbastanza randomico, come se avesse vita propria, senza essere costretto all’interno di gabbie troppo costrittive.
L’indimenticato show con Jason Lee partiva dalla lista di magagne a cui il protagonista voleva porre rimedio, ma già alla terza stagione questo semplice concetto era stato quasi abbandonato, perché i personaggi erano finiti in situazioni che imponevano di focalizzare altrove l’interesse.
Con Raising Hope questo succede già dal primo anno. E’ vero che la storia prende le mosse dalla nascita della piccola Hope, che impone al giovane Jimmy responsabilità che non si aspettava, ma di fatto la narrazione strettamente legata alla bambina è relativamente poca, specie con l’andare avanti delle puntate. Come già in Earl, Garcia dà solo uno spunto iniziale, che gli serve per creare un mondo pieno di personaggi bislacchi da muovere con assoluta fantasia. Col procedere degli episodi, sembra che le varie figure vivano di vita autonoma, imponendo nuove priorità e ambiti di interesse che forse all’inizio nemmeno gli autori si aspettavano. Penso ad esempio all’importanza assunta del negozio in cui Jimmy va a lavorare, che diventa un microcosmo nel microcosmo, pieno di opportunità narrative sempre divertenti, ma quasi mai inerenti alla crescita di Hope.
Con l’andare delle settimane, la bimba è spesso rimasta sullo sfondo, come faccina carina intenta a osservare ciò che gli “adulti” combinano intorno a lei. Adulti con molte virgolette, ovviamente, visto che qui non ce n’è uno che si possa considerare realmente tale. Nemmeno la nonna, altro personaggio che ha conquistato man mano sempre più spazio e che, complice l’alzheimer, è diventato uno degli elementi comici più validi di tutta la serie. Allo stesso tempo, hanno perso terreno i due amici di Jimmy, che dovevano avere la funzione di ricordare al ragazzo la sua vita pre-figlia, ma che poi si sono persi per strada, sopravanzati da altri volti che ora appaiono quasi imprescindibili: Barney, capo di Jimmy al negozio e checca mancata piena di inutile entusiasmo aziendale; Shelley, buffissima proprietaria di un precarissimo asilo nido/casa di riposo/canile (è Kate Micucci, che molti ricordano come fidanzata di Ted in Scrubs); Frank, collega di Jimmy che sta a metà tra uno sfigato devastante e un futuro serial killer psicopatico; e altri ancora.
La scarsa propensione di Greg Garcia al racconto preciso e rigidamente strutturato potrebbe far pensare a una trama troppo sfilacciata e, in fondo, poco interessante. In verità, accade magicamente l’opposto: che partendo da spunti sempre diversi, nati chissà come nella vita quotidiana dei protagonisti, si finisce col non sapere mai cosa aspettarsi, certi che Jimmy, Virginia, Burt e compagnia riusciranno a toccare vette di idiozia quasi incredibili, pur all’interno di ambienti e contesti che potrebbero (o dovrebbero) sembrare normali.
In questo senso, l’ultimo episodio è tutto un susseguirsi di ottime idee comiche, con un pensiero di fondo: mostrandoci il passato dei protagonisti – un passato in cui Jimmy era ribelle, Barney grasso e prossimo all’infarto, la nonna ancora sana di mente ecc – Garcia riesce a mescolare uno strano effetto nostalgia, succose curiosità (come il fatto che la madre di Hope diventa assassina su consiglio inconsapevole di Shelley) e dettagli narrativi in apparenzza molto piccoli, ma in realtà fondamentali: sapere che Virginia e Kurt erano completamente irresponsabili, oltre che ignoranti come capre, e che hanno parzialmente cambiato il loro irritante modo di vivere per aiutare la nonna che cominciava a perdere colpi, getta sui personaggi una luce di sincera bontà, che senza diventare eccessivamente zuccherosa ci fa amare alla follia delle gente che, nella realtà, cercheremmo di evitare come la peste.
E chiudo con una parentesi amara. In italiano Raising Hope è passata su Sky, con il titolo di “Aiutami Hope”.
Come prego?
Sulle titolazioni italiane di film e telefilm, spesso orride, si potrebbe mettere su un blog dedicato. Però dai, Aiutami Hope… Voglio dire, è evidente che in inglese si vuole giocare col concetto di speranza (la traduzione letterale di raising hope sarebbe grossomodo “crescendo la speranza”). Ed è altrettanto evidente che in italiano questo doppio significato non più che perdersi, a meno di doppiare il nome della bambina come Speranza (Dio ce ne scampi…)
Ma “Aiutami Hope” suggerisce un tono quasi problematico, sembra un drama o un thriller con un qualche ragazzino caduto in un pozzo. Possibile che non si sia riusciti a trovare una soluzione alternativa? Mi sarebbe bastato anche un banalissimo “Hope”, e sarei stato contento uguale
Vabbe’, non si può avere tutto dalla vita.
E comunque le comedy si guardano in inglese ragazzi, altrimenti è come non guardarle.