Rings of Power 2 season finale – Ancora non ci siamo di Diego Castelli
Nonostante qualche miglioramento, la seconda stagione di Rings of Power non convince quasi mai, e il finale è l’episodio peggiore
OVVIAMENTE UN SACCO DI SPOILER
Non è mai stata mia abitudine, qui su Serial Minds, spendere troppo tempo a parlare di serie che non mi piacciono, per almeno due motivi abbastanza banali: il primo è che se una serie non mi piace per niente, la mollo, perdendo così la possibilità di parlarne dopo due o tre stagioni; il secondo riguarda una questione di rispetto verso coloro a cui la serie piace: se ho già detto che non la trovo valida e la mia opinione non è cambiata, perché insistere nel tormentare chi invece si diverte?
Poi però esistono anche delle eccezioni. Può capitare che una serie sia così importante – per ambizioni, budget, origine, capacità di generare dibattitto e chiacchiericcio – da imporre una visione più prolungata del solito, e un’analisi ripetuta nel tempo che magari si basa pure sulla speranza che alcuni problemi iniziali possano essere risolti, specie se la tua non era l’unica recensione negativa di tutto l’internet, ma solo uno dei tanti moti di protesta.
Mi scuseranno quindi spettatori e spettatrici che stanno apprezzando The Lord of The Rings: The Rings of Power, se mi permetto di tornare sulla serie dopo il finale della seconda stagione, per dire che no, non ci siamo ancora, e questo show continua a offrire uno spettacolo molto, molto peggiore di quello che dovrebbe.
Inutile spendere troppe parole per tornare sui motivi per i quali non ci era piaciuta la prima stagione di Rings of Power, che poteva sfoggiare grandi mezzi produttivi, ma pesantemente azzoppati da una sceneggiatura largamente difettosa e da una messa in scena piena di sorprendenti ingenuità, compresi scolastici errori di montaggio.
Più rilevante, invece, tornare a qualche settimana fa, quando i primi tre episodi, pur senza entusiasmare, ci avevano trasmesso la leggera speranza che qualcosa potesse cambiare, che gli autori avessero imparato certe lezioni: non erano tre puntate eccezionali, sia chiaro, ma avevano un loro ordine e una loro solidità, sufficienti a farci considerare la possibilità di un agognato cambio di passo.
Dopo aver visto il finale della seconda stagione, però, tocca scuotere mestamente la testa: no, non c’è stato un vero cambiamento, e proprio l’ultimo episodio è stato probabilmente il peggiore della stagione.
E questo nonostante qualche timido passo avanti sia stato fatto, ma davvero troppo poco per poter essere soddisfatti.
Qualcosa di buono su questa stagione si può effettivamente dire.
Prima di tutto, abbiamo visto all’opera gli Anelli del Potere, che sono stati forgiati e indossati e hanno esercitato le loro oscure influenze sui personaggi. Per una serie che si chiama, per l’appunto, “Gli Anelli del Potere”, e che nella prima stagione era stata fin troppo preparatoria, era anche ora.
In secondo luogo, è sembrato di vedere un certo miglioramento visivo, che oltre ai bei paesaggioni della prima stagione è riuscito a regalare qualche brividino in occasione dell’assedio a Eregion (penso al troll che si fa scudo con i cadaveri di altri orchi, tanto per dirne una) o della comparsa del Balrog nelle profondità di Khazad-dûm.
E poi ci sono singoli aspetti/momenti/personaggi capaci di alzare la media di tutto il carrozzone: penso alla delusione di Elrond nell’accorgersi che i nani non stavano arrivando ad aiutare gli elfi (forse l’unico momento in due stagioni in cui ho provato un’emozione sincera); alla bravura di Charlie Vickers, che ci prova tanto tantissimo a costruire un Sauron decente (ma anche Charles Edwards – Celebrimbor è riuscito ad andare oltre il fabbro in pigiama della prima stagione); al modo in cui è stato costruito Tom Bombadil, che in realtà ha fatto un sacco discutere (soprattutto perché troppo impegnato nella politica della Terra di Mezzo rispetto all’originale tolkeniano), ma che mi è parso ben messo in scena soprattutto in termini visivi, anche grazie all’abilità di Rory Kinnear, che ci ha fatto dimenticare che in Black Mirror si ingroppava i maiali.
Le cose buone, però, finiscono più o meno qui, con l’aggravante di essere riusciti a piazzare l’episodio migliore della stagione appena prima di un finale che invece è risultato il peggiore, così che la mazzata risultasse ancora più pesante.
E per quanto si possano fare molti esempi concreti dei problemi di questa puntata (fra poco ne facciamo qualcuno), è facile trovare uno schema che li unisce tutti, una sorta di peccato originale.
Rings of Power, soprattutto in questo secondo ciclo, è una serie in cui gli sceneggiatori sembrano avere un’idea abbastanza chiara (e spesso condivisibile) di cosa dovrebbe succedere ai personaggi, quali emozioni devono smuoverli, e quali snodi principali dovrebbe avere la vicenda.
Su carta, molte cose potrebbero funzionare così come sono state concepite.
Il problema, però, è che queste buone intenzioni, questa macrostruttura narrativa tutto sommato ragionevole, quasi mai trova sbocco in una realizzazione che funzioni, in cui eventi, sorprese e psicologie vengano legate in maniera coerente, in cui il movimento della storia risulti fluido e per questo coinvolgente e “invisibile”, quando invece accade proprio il contrario: la scrittura procede per strappi, salti, forzature e imposizioni, con il risultato di personaggi schizofrenici, poco credibili, talvolta ridicoli.
Non stiamo ad analizzare troppi dettagli degli episodi di mezzo, che sono stati in larga parte vuoti. Primo problema della seconda stagione di Rings of Power è che, malgrado un’accelerata garantita dalla presenza degli anelli, per molti episodi succede troppo poco, e troppo lentamente.
Concentriamoci invece sul finale, che come detto arriva dopo un episodio d’azione per lo meno decente, ma che non può non far arrivare al pettine tutti i nodi e le indecisioni accumulate in precedenza, quando ogni personaggio stava vivendo un’evoluzione che non veniva gestita con la necessaria perizia.
Senza pretese di ordine cronologico, vale la pena di citare Galadriel, che è probabilmente il personaggio meno riuscito di tutta la serie, anche in virtù della sua importanza.
Se nella prima stagione Galadriel era soprattutto antipatica e respingente, nella seconda è anche mal gestita nella sua evoluzione.
Per puntate e puntate si cerca di mostrare l’influenza che patisce dall’anello, anche se lei sembra costantemente consapevole di essa. Non riusciamo mai a capire veramente se sia più di là o più di qua, il che non sarebbe nemmeno un problema gigantesco, se non fosse che poi, nel finale, l’elfa diventa protagonista di una scena tutt’altro che sfumata, in cui con grande sfoggio di teatralità rinuncia alle lusinghe di Sauron per sacrificarsi e gettarsi da un dirupo pur di non lasciare che l’anello torni dal suo padrone.
È una scena molto goffa, perché questo rigurgito di orgoglio di Galadriel arriva dal nulla, tanto smaccato quanto poco evidenti erano le influenze precedenti. In più, l’idea di buttarsi da un dirupo quando sotto non c’è un oceano, ma un bosco, fa pensare che Sauron potrebbe semplicemente mandare qualche soldato a frugare il corpo di Galadriel per recuperare l’anello.
Non sta gran mossa, Gala’…
Succede poi che l’elfa venga soccorsa da Gil-Galad e da Elrond. Nel vedere l’amica ferita (non tanto per la caduta, ma per un’improvvisa oscurità visibile sulla pelle), Elrond decide di indossare l’anello, cosa che non aveva mai voluto fare prima, ma che ora sembra indispensabile.
Ok, ci sto, dai, è giusto che Elrond venga spinto verso l’oscurità dalle circostanze. Solo che poi non vediamo nulla del “come” Elrond avrebbe usato l’anello per curare Galadriel, e poco dopo l’episodio finisce con gli elfi profughi di Eregion che vengono ricompattati da Gil-Galad in vista di future sfide.
E come li ricompatta Gil-Galad? Con un discorso motivazionale? Con ordini perentori e intelligenti? Con un suo sacrificio personale?
No, piazzandosi su una collina e alzando una spada a caso facendosi vedere.
Ok…
Torniamo indietro, all’inizio.
Nelle miniere di quella che sarà Moria, il re Durin, lui sì soggiogato in modo evidente dall’anello arrivatogli indirettamente da Sauron, “scava troppo” nella roccia e finisce con il risvegliare il Balrog, che rappresenterà l’evidenza del suo errore, generato dall’ambizione.
Ok, ci piace, ci sta bene. Però il cambio nell’atteggiamento del re è largamente troppo rapido. Un istante prima litiga con il figlio che cerca di convincerlo ad abbandonare i suoi propositi, e un attimo dopo, alla vista del Balrog, è già pronto a voltarsi verso l’erede e snocciolare perle di saggezza prima di immolarsi contro il mostro.
La scena è abbastanza potente dal punto di vista visivo, ma la rapidità con cui Durin emerge da quella che finora abbiamo percepito come una dipendenza, è inverosimile, fittizia, forzata.
Avete capito il meccanismo dell’errore, giusto? Questo far succedere le cose “perché sì” senza motivarla adeguatamente?
Nel mondo degli uomini, probabilmente l’arco narrativo meno interessante di tutta la serie, che vuole essere Game of Thrones senza riuscirci mai, la regina vuole dare una speranza al povero Elendil, ormai considerato un traditore e un reietto.
Per questo gli consegna Narsil, una spada famosissima nel mondo de Il Signore degli Anelli, la spada che si spezzerà in più parti e che verrà usata da Isildur per tagliare il dito di Sauron, la stessa spada che Aragorn, anni e anni dopo, ammirerà come preziosissima reliquia dei tempi andati.
La stessa spada che qui stava semplicemente appoggiata a una cassapanca, e che Elendil sfodera con la medesima, forzata teatralità con cui Galadriel si getta dal dirupo, creando l’ennesimo contrastro fra l’epica che gli sceneggiatori avevano in mente, e quella che poi si vede effettivamente sullo schermo.
Un’epica che alla vicenda di Isildur manca completamente, e non ha nemmeno senso starci troppo su.
Se poi parliamo di archi narrativi di scarso peso, non possiamo non arrivare allo Straniero.
Tutta la faccenda dei pelopiedi e dei loro cugini, introdotti in Rings of Power solo perché “come fai a fare una serie sul Signore degli Anelli senza qualcosa che assomigli agli hobbit”, è di una pochezza e di una inutilità imbarazzante, certificata dal modo in cui lo Straniero saluta i suoi piccoli amici, senza alcun calore, senza alcuna frase memorabile, tutto incredibilmente buttato lì.
Ma soprattutto, lo Straniero è Gandalf. Una “rivelazione” abbastanza buffa per un personaggio di cui, dal primo momento in cui è apparso, tutti dicevano “sembra Gandalf”, ma allo stesso tempo un’evoluzione quasi obbligata considerando che il personaggio appartiene alla stessa specie del famoso stregone, e di quella specie esistono pochissimi esemplari.
La sua lotta contro il Dark Wizard, altro personaggio senza il minimo spessore, cotto e mangiato nel giro di pochissime scene, si risolve in un semplice “rinuncio al male in nome dell’amicizia”, che fa sembrare l’episodio una puntata dell’Albero Azzurro, e che si conclude proprio con l’appropriazione da parte del personaggio del bastone da mago e del nome di Galdalf.
E come arriva quel nome? Con i simil-hobbit che lo chiamano continuamente “Grand-Elf”, un termine che ripetuto molte volte e pronunciato rapidamente fa venire in mente allo Straniero la possibilità di chiamarsi “Gandalf”.
Ora, al netto che è una soluzione così simile a quella di Hodor in Game of Thrones, da suonare quasi un plagio, ma soprattutto quella non è l’origine del nome secondo Tolkien.
E badate bene, qui non si tratta di essere dei nazisti della fedeltà alle opere originali, ma se tu vuoi appassionare (anche) un pubblico che già conosce l’opera di Tolkien, un autore che ha fatto dell’amore per la linguistica il fondamento primo e totale di tutta la sua produzione artistica, non puoi sbattertene in maniera così plateale del fatto che lui una spiegazione dell’etimologia di Gandalf l’aveva fornita, per inventarti una cosa tua solo perché ti sembra più simpatica.
Poi la gente ti insulta, e non puoi fare finta di non sapere perché.
Come accennato, gli elementi migliori vengono probabilmente da Sauron e Celebrimbor, una delle poche relazioni della serie (insieme a quella fra Elrond e Durin e in parte quella dello stesso Durin con il padre) a funzionare più o meno decentemente.
Anche qui avevamo assistito a qualche scelta fin troppo derivativa, come l’incantesimo illusorio da Truman Show / Matrix con cui Sauron aveva ingannato Celebrimbor mentre il fabbro lavorava agli anelli quando intorno infuriava il caos, ma almeno ci sono dei momenti di effettiva intensità, come quando Celebrimbor si rende effettivamente conto di essere stato ingannato, o proprio alla fine quando Sauron lo impala dopo averlo torturato.
E però anche qui c’è del disordine: Sauron ci viene venduto come grande ingannatore e pianificatore, ma alla fine sembra lui stesso dipendente e soggiogato dai suoi stessi anelli, che cerca di recuperare con un’ossessione non esattamente compatibile con l’idea di uno che quegli anelli li ha creati al solo scopo di usarli come catene per altri popoli, mentre lui comandava tutti con l’Unico.
È insomma un Sauron che ha un discreto carisma da malvagio-che-pensa-di-essere-il-salvatore-del-mondo, ma i cui piani e le cui motivazioni risultano ondivaghe, non perfettamente centrate, in un mondo narrativo che non dovrebbe avere questo genere di sfumature e indecisioni fra le sue caratteristiche principali.
Si potrebbe andare avanti, parlando della gestione degli orchi come un popolo tutto sommato “normale” (perché nel 2024 pare che non si possa immaginare una specie senziente come geneticamente cattiva, sennò sei razzista), o citando altri buchi e salti forzatissimi, come il ferimento apparentemente mortale o quasi di Arondir nel penultimo episodio, seguito da una guarigione totale e misteriosa nel finale.
Arrivando perfino ad alcuni dettagli potenzialmente decenti, ma che nella debolezza generale finiscono col perdere anche quella poca forza che hanno, come la fine rapida e ingloriosa di di un personaggio importante come Adar, ucciso dagli orchi rubatigli da Sauron subito dopo che lui ci aveva mostrato la straordinaria utilità degli anelli nella skincare quotidiana.
Insomma, Rings of Power è una serie che continua a non funzionare. E non funziona per problemi sempre uguali e del tutto noti, ma che in fase di elaborazione della sceneggiatura non riescono a essere corretti e riassorbiti per via della fretta, dell’ansia da prestazione, dell’incapacità di mettere la fluidità della narrazione di fronte alla necessità ormai controproducente di stupire gli spettatori e condurli a momenti di grande epica, che però quell’epica non la sanno costruire.
Nel complesso è parsa una stagione migliore della precedente, più centrata, con più cose da raccontare, e complessivamente meno errori pacchiani.
E però siamo lontanissimi da ciò che una serie come questa aveva promesso e continua a promettere, lontanissimi perfino dalla semplice speranza di seguire una buona storia, raccontata bene, con un capo e una coda.
Ci basterebbe solo quello, senza nemmeno preoccuparci di reggere l’impossibile confronto con l’enormità (intellettuale, prima che emozionale) dell’originale.
E invece siamo qui a dire “meno male che è finita almeno per un po’”.
Peccato.