Eric su Netflix – Benedict Cumberbatch e molta (troppa?) altra roba di Diego Castelli
Eric è una miniserie di bambini scomparsi, pupazzi, poliziotti, coniugi, politici, senzatetto, programmi tv, alcolisti, amanti, genitori
Quando si costruisce una storia, vale per le serie tv come per il cinema e i libri, una delle questioni da porsi e di cui si parla generalmente poco riguarda il “quanto” metterci dentro. Un racconto lungo ma povero di eventi potrebbe risultare vuoto e noioso, mentre una trama troppo piena potrebbe ingolfarsi. Il troppo e il poco, naturalmente, sono categorie sfumate, e l’abilità nella scrittura e nella messa in scena sta anche nella capacità di gestire il materiale narrativo che si è scelto di utilizzare, tanto o poco che sia.
Da questo punto di vista, ci capita abbastanza spesso di vedere serie tv che la tirano troppo in lungo, che magari arrivano alla quinta stagione senza niente di nuovo da raccontare, costringendoci a dire che bisognava fermarsi prima (benedetta sia Succession che si è fermata appena prima di iniziare a sbrodolare). Oggi invece parliamo del caso di Eric, cioè una miniserie molto breve, con diversi pregi, ma anche pienissima di cose che, forse, si potevano sfrondare un po’.
Creata da Abi Morgan (già sceneggiatrice, una decina d’anni fa, di The Hour) e con protagonista il sempre adorato Benedict Cumberbatch, Eric prende le mosse dalla sparizione di un bambino, il giovane Edgar (Ivan Morris Howe), che scompare sulla via della scuola dopo l’ennesimo litigio fra i suoi genitori, la madre Cassie (Gaby Hoffmann) e il padre Vincent (Cumberbatch), che di mestiere fa il burattinaio in un famoso programma tv in stile Muppet Show, da lui stesso creato.
In teoria, così almeno ce la vendevano nel trailer, Eric dovrebbe raccontare il tentativo di Vincent di comunicare a distanza col bambino scomparso usando per l’appunto “Eric”, un nuovo pupazzo che il protagonista crea sulla base di schizzi e idee dello stesso Edgar.
Dico però “in teoria”, perché se è vero che questa è la struttura portante della serie, da essa però si devia in continuazione, e con molta decisione, verso altre storie, altri personaggi, altri lati della vicenda.
In aggiunta ad altre sottostorie che riguardano lo stesso Vincent, come il suo incipiente alcolismo, il fatto che comincia a vedere Eric come se fosse una creatura realmente esistente, e i suoi problemi matrimoniali, la trama abbraccia almeno altre due macro-storie: da una parte il lavoro e la vita privata del detective Michael Ledroit (McKinley Belcher III), che è nero e segretamente gay, compagno di un uomo che sta morendo di AIDS (siamo a inizio anni Ottanta), dall’altra le vicende cittadine che girano intorno ai maneggi del politico Richard Costello, interpretato da Jeff Hephner.
Eric ha diversi pregi. Il più banale di tutti, ma non per questo sorvolabile, è la bravura di Benedict Cumberbatch. L’ex Sherlock buca lo schermo ogni volta che appare, dà prova della sua straordinaria versatilità vocale (dà voce al pupazzo Eric con la stessa bravura con cui aveva doppiato Smaug nella trilogia de Lo Hobbit), e costruisce un personaggio che, contrariamente alla tradizione dei padri televisivi a cui rapiscono i figli, tocca importanti vette di sgradevolezza, perché la serie è, fra le altre cose, anche un suo importante viaggio di crescita verso nuove consapevolezze di vita.
E poi c’è una capacità molto specifica di scrivere, recitare e mettere bene in scena ognuna delle molte sottostorie a cui abbiamo accennato.
La vicenda del detective Ledroit è effettivamente densa di forza e significato, e la sua sete di giustizia, intesa soprattutto come ricerca di un ordine all’interno di una vita che contiene una parte di ingestibile caos, lo trasforma in un personaggio a tratti commovente.
Qualche problema in più arriva quando proviamo ad allargare lo sguardo, nel momento in cui tutte queste sottostorie devono comporre un mosaico più grande.
Perché la volontà evidentemente c’è: per quanto tutti diversi fra loro, i fili narrativi di Eric sembrano fare capo ad alcune tematiche comuni, con personaggi segnati da segreti e fragilità che, a vario titolo, li privano della serenità e necessitano di una qualche forma di ricomposizione e riflessione.
Lo scenario di una New York caotica, agitata, ribollente, quasi ingovernabile, diventa lo sfondo su cui montare vite in cui il tentativo di tirare a campare (metaforicamente o meno) si scontra con un elemento di totale imprevedibilità, che costringe i personaggi, prima o poi, a lavorare su sé stessi prima che sul mondo che hanno intorno, di fronte al quale altrimenti non potrebbero che soccombere.
Allo stesso tempo, però, le storie sembrano davvero troppe, e il rischio concreto è che alcune perdano la possibilità di essere approfondite quanto meriterebbero.
E non è solo questione di quantità, ma anche di percorso effettivo: per una serie che ci vende la storia di un padre pronto a mettere disperatamente la propria creatività al servizio della sopravvivenza del figlio, il percorso di Vincent ci appare schizofrenico, quasi nel senso medico del termine.
L’elemento “facciamo un pupazzo che possa essere visto da Eric” finisce con l’avere un’importanza relativa, mentre gran parte del tempo è dedicato all’alcolismo di Vincent e ai problemi lavorativi che ne derivano.
Contemporaneamente, la vicenda della sparizione di Edgar riceve una grande attenzione in termini polizieschi, ma poi si risolve (e cerco volutamente di stare vago) in modo molto semplice, quasi con un colpo di spugna rispetto all’indagine svolta fino a poco prima.
Questo accade perché, banalmente, la volontà di seguire le storie dei personaggi per vedere dove conducono (saltando continuamente da una genere all’altro, dal poliziesco al drama familiare, dalla meta televisione a Tim Burton), porta però a perdere il filo di trame che all’inizo erano state costruite per essere molto importanti e che alla fine lo sono meno del previsto, in un mondo che genera frustrazione almeno tanto quanto suscita sorpresa.
Probabilmente, Eric avrebbe potuto raccontare un po’ meno. Razionalizzare meglio i suoi spunti, accettare che qualche sfumatura e deviazione poteva essere sacrificata in nome di un rafforzamento di ciò che già c’era.
E questo non perché il suo racconto sia evidentemente manchevole o mal gestito, non perché la carne al fuoco abbia un cattivo sapore, ma semplicemente perché è talmente tanta, che si rischia di fare indigestione.
Eric è un bell’affresco di una città, di un momento storico, di una tensione collettiva e di un bisogno di introspezione e crescita. Vista così, da una prospettiva il più possibile larga, si porta dietro una forza visibile e singoli momenti di grande efficacia. Se invece si guarda il dettaglio, c’è sempre l’impressione che manchi qualcosa, o che sarebbero serviti tre-quattro episodi in più per avvcinare meglio vicende che finiscono con l’apparire appiccicate a forza col silicone.
Perché seguire Eric: per la capacità di costruire un mondo vivo e vibrante, guidato da un attore di straordinaria presenza scenica.
Perché mollare Eric: perché quel mondo è così pieno di spunti da essere fin troppo caotico.
PS Non c’entra niente con tutto il resto, ma volevo dire che alla fine del terzo episodio c’è una scena in discoteca in cui la gente balla sulle note di Gloria, nella versione di Laura Branigan. E ogni volta che la sento (e fra cinema e serie tv capita abbastanza spesso) penso a quanti soldi si prende Umberto Tozzi dal 1979, grazie a una singola canzone con cui ha spaccato tutto. Bravo Umbertone, colpaccio!