A Man in Full – Tipo Billions for dummies di Diego Castelli
A Man in Full, in italiano Un Uomo Vero, è una miniserie capitalistico-finanziaria che punta tutto su Jeff Daniels e la gente che urla
Devo confessare che Billions, dopo un po’, l’ho mollata.
E non perché non fosse ben scritta (lo era), non perché non avesse buoni interpreti (eccome se ne aveva), non perché non fosse, in generale, una serie di spessore (perché lo era).
Semplicemente, l’ambito legal-finanziario (per chi non l’avesse mai vista, raccontava la faida fra un riccone maneggione e un arcigno procuratore federale) non è il mio preferito in fatto di serie tv, e dopo un po’ non ci capivo più niente.
Nel vedere A Man in Full, che su Netflix trovate come Un uomo vero, le somiglianze superficiali con Billions sono abbastanza vistose, proprio per via di un nuovo scontro fra un riccastro viscidone e qualcuno che vuole buttarlo giù. Poi però le due serie divergono anche parecchio, e la differenza porta a un risultato paradossale: A Man in Full è palesemente inferiore a Billions, però sono arrivato alla fine abbastanza felice e avendo capito tutto.
Tratta dal romanzo di Tom Wolfe e scritta dal veteranissimo David E. Kelley, creatore, fra le moltissime, di Ally McBeal e Big Little Lies, A Man in Full racconta la storia di Charlie Croker (Jeff Daniels), un imprenditore sfacciatamente ricco e riccamente sfacciato, che vive una vita da maschio alpha fatta di lussi, riserve di caccia, cappelli da cowboy e spacconate varie.
Nei suoi molti maneggi (nel senso di maneggiare, non nel senso dei cavalli), Charlie finisce col tirare troppo la corda e si trova pieno di debiti con una banca che vuole indietro i suoi soldi, circostanza che scatena un (neanche troppo) complesso gioco di incastri fra imprenditoria, politica locale, ex mogli e sottoposti vari.
La vicenda legal-finanziaria di Charlie è ovviamente la storia principale, ma da essa dipartono diversi rami accessori: c’è il suo legale di fiducia che viene mandato a difendere il fidanzato della segretaria di Charlie, accusato di aggressione a pubblico ufficiale; c’è uno dei più agguerriti nemici di Charlie (Raymond, interpretato da Tom Pelphrey) che finisce con il corteggiargli la ex-moglie Martha (Diane Lane); c’è il sindaco Wes Jordan (un personaggio non-del-tutto-buono per William Jackson Harper, novità!) che vorrebbe sfruttare i problemi di Charlie per trarne vantaggio politico con una mossa sottobanco.
E c’è pure Lucy Liu.
Ora, come detto A Man in Full può essere considerata una Billions più semplice e di grana grossa, perché concentra diverse vicende in solo sei episodi, e perché rispetto a Billions lavora meno sulla costruzione di una tensione lenta e sfumata, preferendo scontri più aperti, insulti urlati, e qualche scelta ai limiti del trash.
Allo stesso tempo, non è una serie sciocca, di sicuro non nelle intenzioni, per quanto la realizzazione rimanga complessivamente media: sotto la vicenda di tutti i personaggi, infatti, ribolle lo stesso tema, poi declinato in vario modo a seconda del momento.
Parliamo della tensione, o forse proprio dello sfregamento, dell’attrito, fra l’immagine pubblica dei personaggi, l’immagine che hanno di sé e che vogliono proiettare all’esterno, e poi quello che sono veramente.
Queste contraddizioni, assai umane, possono andare nei due sensi di mostrarci persone che si dipingono come buone e forse pensano davvero di esserlo, anche se poi hanno pesanti lati oscuri (come lo stesso Charlie), e al contrario gente che con il lato oscuro ci gioca e magari ci lavora, aspirando però sinceramente a fare qualcosa di buono nel mondo, come l’avvocato del protagonista, Roger White (Aml Ameen).
Soprattutto, sono contraddizioni che consentono ai personaggi di non essere complete macchiette anche in una serie che, per questioni di tempo e di semplice voglia di intrattenere, spesso taglia con l’accetta più che col bisturi, orchestrando scene madri di grande carica emotiva (e qualche volta anche un po’ comica) e spingendo i suoi caratteri costantemente all’estremo, per ottenere da loro una risposta anche fisica, sudata, spettinata (ed è il caso, di nuovo, di Charlie, ma anche del suo più incattivito nemico, Raymond).
Se A Man in Full non raggiunge l’eccellenza non è tanto per specifiche mancanze o grossi errori. O meglio, avrei qualcosa da dire sul finale, che mi è sembrato un tantinello affrettato e fin troppo grottesco, ma sono ancora combattuto perché in fondo non è del tutto incoerente con quanto si vede prima.
A parte questo (pur importante) dettaglio, comunque, a lasciare la miniserie nell’ambito delle cose “gradevoli ma medie” c’è proprio la sua difficoltà nel prendere una traiettoria molto definita e per questo più riconoscibile: le mancano le sfumature d’autore di Billions o di Succession, ma non è nemmeno così carica dall’altra parte, dove potrebbe rendersi memorabile in quanto trashata consapevole.
Lo si vede bene anche nel modo in cui tratta certi temi molto “di moda”, come il razzismo e la violenza sulle donne, toccandoli in modo leggero e non particolarmente originale.
È una serie che vuole intrattenere in modo solido (ci riesce) e che si affida molto alla verve dei suoi interpreti, su tutti un Jeff Daniels che ha sempre la sua dose di carisma da piazzare sulla scena. In fondo, è proprio una serie di David E. Kelley, di quelle che l’autore ha probabilmente scritto in pochi pomeriggi, in mezzo ai suoi ottocento impegni e progetti.
E intendiamoci, quando uno come lui impegna qualche pomeriggio a scrivere, possiamo stare sicuri che uscirà comunque fuori una cosa divertente e godibilissima. Solo, non un capolavoro.
Perché seguire A Man in Full: sono sei episodi che intrattengono senza problemi, con buoni interpreti, una storia che funziona, e qualche tema non banale sotto la superficie.
Perché mollare A Man in Full: nonostante la sua solidità, non eccelle in nulla, e nel suo genere possiamo farci venire in mente diversi concorrenti più validi.