Baby Reindeer su Netflix – Storie vere che fanno male di Diego Castelli
In sette episodi Baby Reindeer racconta un’importante storia di abuso, oscurità e relazioni tossiche, da un punto di vista inedito
Se avete seguito la scorsa puntata del nostro podcast Salta Intro, avrete notato che a un certo punto siamo caduti dal proverbiale pero: ci hanno fatto notare che non avevamo ancora accennato in alcun modo a Baby Reindeer, una miniserie di Netflix che in quei giorni era arrivata al primo posto fra le nuove serie più viste in Italia.
Il motivo di questa mancata citazione era che… me l’ero persa. Nel mio settimanale screening sulle novità, che ci serve a comporre proprio la puntata del venerdì di Salta Intro, Baby Reindeer mi era sfuggita, e destino ha voluto (NATURALMENTE, mi viene da aggiungere) che quella mancanza diventasse particolarmente vistosa per via della classifica sulla piattaforma.
Ebbene, dopo aver incassato il fastidio per questa mancanza, sono corso a recuperare la miniserie sperando di poter dire qualcosa del tipo “sì me l’ero persa, ma non era poi sto granché”).
E invece, e qui piazzerò un altro “NATURALMENTE”, è un prodotto piccolo ma molto potente, che non si può che consigliare.
Baby Reindeer è creata, scritta e interpretata da Richard Gadd, attore e comico scozzese che ha tratto la miniserie da un suo spettacolo teatrale, a sua volta basato su alcune reali esperienze di vita dello stesso Gadd.
E non sono esperienze piacevoli.
Baby Reindeer racconta la storia di Donny, un ragazzo interpretato dallo stesso Gadd, che sogna di fare lo stand-up comedian e intanto si guadagna da vivere come barista.
Un giorno nel suo locale entra Martha (Jessica Gunning), una donna un po’ più grande di lui, che racconta storie strampalate sulla sua vita e il suo presunto lavoro, e che diventa presenza fissa nel locale.
Donny è stranito da alcune caratteristiche di Martha ma la trova complessivamente simpatica, e fra i due nasce una strana amicizia al bancone del bar.
Sembrerebbero le premesse per una zuccherosa commedia romantica, se non fosse che l’interesse di Martha per Donny diventa sempre più morboso (lei lo chiama “piccola renna”, da qui il titolo della serie), fino a sfociare in un vero e proprio stalking, che non è uno spoiler perché ci viene annunciato fin dalla prima scena, in cui Donny si reca alla polizia per poi farci seguire il suo racconto in flashback.
Baby Reindeer diventa quindi la cronaca di una relazione tossica, di un abuso emotivo e fisico, nonché la scusa per approfondire ulteriormente la storia di Donny, nel cui passato si nascondono altri profondi traumi che hanno facilitato la nascita dell’oscura relazione con Martha.
Baby Reindeer è una serie spiazzante per almeno due motivi.
In primo luogo c’è una questione di contesto: siamo abituati ad ascoltare storie di abusi e violenze in cui le vittime sono donne, e quelle storie compongono una larga parte del dibattito e dell’approfondimento collettivo sulle relazioni tossiche e sulle loro derive più criminali.
Ci sono banali ragioni statistiche e culturali per questo fatto, ma il risultato è che quando a subire certi abusi è un uomo, anche se magari già sappiamo che può succedere e succede, sentiamo di avere meno dimestichezza col tema e le sue possibili ramificazioni.
L’altro motivo per cui Baby Reindeer risulta spiazzante è che i suoi autori e autrici (le registe sono Weronika Tofilska e Josephine Bornebusch) sembrano avere ben presente quella differenza di percezione, tanto che costruiscono l’inizio della serie come un normale thrillerino poliziesco, così light da permettersi pure certi elementi e ritmi da comedy, salvo poi spalancarci le porte a un abisso che fino a quel momento non ci eravamo aspettati, e che diventa particolarmente vertiginoso proprio perché davamo per scontato che non potesse essere così profondo.
Il viaggio di Baby Reindeer è relativamente breve (sette episodi, la maggior parte dei quali sotto la mezz’ora) ma non lascia nulla al caso, e il suo maggior pregio è proprio quello di condurci passo passo in tutta l’oscura complessità che aggroviglia la mente del protagonista.
Non stiamo parlando del percorso hollywoodianamente lineare di un abuso che viene immediatamente riconosciuto come tale, che viene combattuto (magari con qualche aiuto esterno) e che infine viene sconfitto, in un percorso in cui tutti gli elementi in gioco sono perfettamente riconoscibili in ogni momento.
La realtà è più complessa di così, e anche Baby Reindeer lo è: gli abusi che Donny subisce non sono immediatamente riconosciuti come tali, e anche quando lo sono, la reazione del protagonista non è sempre quella che ci aspetteremmo, noi che possiamo valutare razionalmente la faccenda dal comodo del nostro divano.
Al contrario, Baby Reindeer ci sfida a scoprire tutti i percorsi inaspettati e devianti che una mente umana può intraprendere nel tentativo di gestire l’ingestibile, di ordinare un caos che non può essere ordinato solo con la logica o con la negazione.
Il punto di partenza di Donny è un grande bisogno di essere visto, compreso, amato e riconosciuto, ed è questo bisogno che, per primo, conduce Donny sulla via dell’accetazione di un abuso in cambio di qualcosa che lui ritiene inconsciamente più importante, ma che infine rischierà di rovinare per sempre la sua vita.
In questo, Baby Reindeer non fa sconti. È chiaro che Donny è sempre la vittima, e su questo non c’è mai ambiguità, ma la serie (e Richard Gadd in prima persona, che sa di cosa parla) ci mostra non solo la durezza dell’abuso, ma anche il modo in cui quell’abuso sembra quasi riscrivere la mente del protagonista. Ci sembra quasi di vedere i suoi neuroni che si riorganizzano, in un processo di trasformazione e degenerazione che può condurre Donny all’autodistruzione, alla perdita di ogni riferimento, alla dissoluzione di tutte le cose buone e sane della vita del protagonista, anche in assenza (o quasi) della violenza come siamo più abituati a concepirla, cioè l’atto sessuale perpetrato con la forza contro una persona che non ha fisicamente la forza di difendersi.
Il dolore che proviamo nel seguire la vicenda di Donny non deriva solo dal manifestarsi dell’abuso e della violenza in sé, ma viene anche, e forse soprattutto, dalla percezione dello sgretolarsi della mente del ragazzo, che pensa sempre di essere più o meno in controllo della situazione, anche quando vediamo chiaramente che così non è, anche quando le conseguenze dei suoi traumi diventano una barriera fra lui e qualunque relazione sana.
Il paragone più immediato che viene da fare è con I May Destroy You di Michaela Coel, la serie del 2020 di BBC e HBO, che vedeva la sua forza principale proprio nella rappresentazione del danno che una violenza poteva produrre su una mente che nemmeno ne serbava un preciso ricordo.
Nel caso di Baby Reindeer, l’abuso è meno sfumato, più evidente fin da subito, ma lo scavo psicologico è lo stesso, come identica è la capacità di mostrarci sfumature e dettagli che solitamente non siamo abituati a vedere, perché il cinema e le serie tv tendono a fermarsi a uno strato più superficiale della questione.
In questo senso, straordinaria è la capacità di Richard Gadd di mettersi a nudo, di restituirci un quadro completo e comprensibile di una situazione complicata e difficilissima, e dopo sette episodi non abbiamo solo l’impressione di aver ricevuto un pugno nello stomaco, ma anche di aver fisicamente appreso qualcosa. Ne sappiamo più di prima, e le cose che abbiamo imparato sono palesemente importanti.
Si potrebbe approfondire ulteriormente, perché alcuni dettagli meriterebbero analisi specifica: penso all’intenso racconto del processo che porta Donny all’abbassare così tanto le proprie difese in nome della carriera, da finire in mano a un vero e proprio predatore; oppure alla scelta di Jessica Gunning per la parte di Martha, le cui caratteristiche fisiche lavorano per la costruzione di un personaggio apparentemente innocuo (al punto che magari qualcuno potrebbe arrabbiarsi per la scelta di un’attrice plus size per rappresentare la “brutta e sfigata”), ma che proprio per questo rende ancora più spaventose le armi che ha a disposizione per distruggere la vita di Donny.
Preferisco comunque fermarmi qui, un po’ per non spoilerare troppo, e un po’ perché il concetto rimane quello: Baby Reindeer rappresenta un po’ di vista inedito, complesso, approfondito, su una questione che è tanto presente nella nostra vita e nella nostra cronaca, quanto solitamente irregimentata dentro cornici narrative precise, che hanno una loro funzione sociale e culturale, ma che a volte impediscono di cogliere ulteriori sfumature.
Ecco, qui di sfumature ce ne sono quante ne volete, dentro una storia perfettamente comprensibile e spesso assai rivelatrice.
Avercene.
Perché seguire Baby Reindeer: l’onestà e il sacrificio con cui il suo creatore ci mostra nei dettagli un passaggio così doloroso e importante della sua vita, merita attenzione e curiosità.
Perché mollare Baby Reindeer: è una serie che, senza mostrare granché di scabroso, può risultare parecchio disturbante. Meglio saperlo.