Franklin su Apple Tv+ – Una buona serie che non guarderò di Diego Castelli
Un inossidabile Michael Douglas in un pezzo importante di Storia americana, ma non facilmente digeribile
Che il gusto personale funzioni anche “a prescindere”, suggerendoci quali generi, ambientazioni, interpreti ci renderanno più facilmente apprezzabile una serie tv (o un film, o un romanzo), è una verità così evidente da non meritare nemmeno argomentazione.
Allo stesso tempo, fa piacere pensare a sé stessi come persone in grado di andare oltre i propri pre-giudizi, pronti a ricoprire la parte di quelli che possono apprezzare qualunque prodotto, se questo riesce a superare certi standard di qualità.
E alle volte ci si riesce, pure con sorpresa e tanta soddisfazione: The Bear mi appassiona anche se non me ne frega niente del mondo della cucina, e una quindicina d’anni fa non avrei mai pensato di potermi interessare ai cavilli della politica e della burocrazia americana contemporanea, prima di imbattermi nella miracolosa scrittura di Aaron Sorkin in The West Wing.
Però appunto, se i nostri gusti guidano le nostre scelte di visione, per superare certe barriere serve qualcosa in più, uno sforzo superiore, un equilibrio particolarmente azzeccato, un autore/autrice in stato di grazie, ecc.
Altrimenti succede come in Franklin, la nuova serie di Apple Tv+ sulla quale posso dire poco di male, pur accettando un’amara verità: dopo aver visto tre episodi (usciti in contemporanea), non ho alcuna intenzione di guardare il quarto.
Franklin è creata da Kirk Ellis e Howard Korder a partire dal libro A Great Improvisation: Franklin, France, and the Birth of America, scritto nel 2005 da Stacy Schiff.
Al centro del racconto ci sono gli otto anni che Benjamin Franklin – scienziato, politico, intellettuale di grande fama, nonché fra i padri fondatori degli Stati Uniti in quanto co-redattore e firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza – passò in Francia alla corte di Luigi XVI, nel tentativo di assicurarsi l’aiuto militare della Francia nella lotta che le colonie americane stavano combattendo contro l’Inghilterra, con l’obiettivo di diventare indipendenti.
A interpretare Franklin c’è il quasi ottantenne Michael Douglas, che torna sul piccolo schermo a tre anni dalla fine della deliziosa The Kominsky Method di Netflix, e divide la scena con Noah Jupe nei panni di Temple, giovane nipote del protagonista.
Ora, sarò onesto con voi: io di questa storia di Franlkin che va in Francia non sapevo assolutamente nulla. Mi chiedo se il motivo sia che la mia conoscenza della Guerra d’Indipendenza Americana deriva soprattutto dagli scampoli ricevuti da film e serie tv a stelle e strisce, in cui probabilmente il ruolo decisivo dei francesi nella vittoria finale non viene molto sottolineato, avendo comunque una gran quantità di altre battaglie e momenti memorabili da poter sfoggiare e con i quali costruire mille storie hollywoodiane.
Fatto sta che, in effetti, questa porzione della vita di Benjamin Franklin, che di vite ne ha vissute tre o quattro almeno, mi era del tutto oscura, ed è quindi quasi straniante vedere questo personaggio, così legato al mito americano, muoversi in un contesto di nobiltà, di parrucconi, di erre arrotate, a cui normalmente non lo assoceremmo mai.
E in questo senso Apple non si risparmia: la serie è ricca, quasi debordante, ottimamente fotografata, piena di costumi, di arredi, di comparse, di folle, e lo spettatore è rapidamente ed efficacemente trasportato in un altro mondo, in cui il cuore dell’azione è soprattutto fatto di dialoghi, dichiarazioni, discorsi accorati, intrighi politici, doppi giochi e inaspettate alleanze.
In questo scenario, Michael Douglas si muove con grande abilità, calando tutto il suo carisma quando si tratta di impersonare il consumato politico dalle mille risorse, ma giocando anche con l’evidente disagio di un uomo lasciato quasi da solo su un fronte dove bisogna fare un lavoro fondamentale praticamente da zero, e in cui le differenze linguistiche possono essere un ostacolo assai complesso per un uomo che fa della dialettica il suo principale strumento di lavoro.
Quindi insomma, tutto bene? Di fatto sì, ve l’avevo detto che questa era una serie valida.
E però qualche problema c’è, un problema prima di tutto personale, ma sul quale lo show non riesce a lavorare abbastanza da compiere quel famoso passo in più.
Di base, di questa storia mi interessa poco. Nel suo lodevole sforzo storiografico, di cui pochissimo tempo fa abbiamo visto un’altra pregevole incarnazione in Manhunt, Apple Tv+ mi porta in un’ambientazione fatta di affettazione e abiti pomposi, in cui il dialogo politico è quasi l’unico motivo di interesse.
E io ammetto di fare fatica, di non riuscire a trovare un appiglio che scateni il mio entusiasmo.
Solo che, se anche io non arrivo a questa serie colmo di aspettativa, c’è comunque qualcosa che manca. Proprio perché tutta questa vicenda si basa su tensioni politiche e dialoghi fra nobili e ambasciatori, la sceneggiatura è chiamata a farsi carico della forza complessiva del racconto molto più di quanto suggerirebbe la ricca messa in scena.
In questo senso, i dialoghi di Franklin hanno il merito di andare sempre al punto e di costruire bene i personaggi, ma manca quel guizzo che ci faccia venire voglia di stoppare l’episodio per assaporare le parole che sono state appena pronunciate.
E poi c’è una questione più strutturale. Nel raccontarci degli sforzi di un uomo per indirizzare le sorti di una guerra, Franklin non ci mostra mai o quasi mai il conflitto.
Il che non dovrebbe essere un problema di per sé, se non fosse che nei primi tre episodi c’è comunque questa sensazione di essere lontani dalle cose importanti, dalle questioni di vita e di morte. Franklin è una serie che, per sua stessa natura e concept, si auto-esilia alla periferia dell’azione, con il paradossale risultato di una storia che ci racconta quanto siano importanti e cariche di significato delle cose che non stiamo vedendo.
La cosa è particolarmente evidente quando la sceneggiatura, per creare la tensione (anche con una certa efficacia, in verità), deve usare le notizie che arrivano a Franklin da oltre oceano, trasformandosi soprattutto in una serie di parole e di attesa.
Non c’è niente di incoerente, in Franklin, c’è molta consapevolezza dei propri (robusti) mezzi e una visione chiara di ciò che si vuole raccontare. Semplicemente, dopo tre ore di divani d’epoca e nobili con la puzza sotto il naso, mi viene difficile pensare che nelle prossime ore il mio cuore e il mio stomaco saranno ribaltati dall’emozione.
E quindi mi sa che mi fermo qui.
Perché seguire Franklin: ricostruisce con precisione, grandi mezzi, e un attore di fama immortale, un pezzo meno conosciuto e poco raccontato della storia degli Stati Uniti.
Perché mollare Franklin: se quella vicenda è generalmente poco raccontata c’è un motivo, e Franklin lascia la strana sensazione di portarci lontano da ciò che conta veramente.