A Gentleman in Moscow – Lo scozzese Ewan McGregor diventa russo di Diego Castelli
Una miniserie in arrivo su Paramount+ che nel pilot fa tante cose giuste, ma che ci spaventa per la sua tenuta sul medio periodo
Scusate se inizio con una nota polemica abbastanza gratuita, ma non posso proprio resistere.
Viviamo anni particolari, in cui c’è molta attenzione all’inclusività, al rispetto delle minoranze e della loro rappresentazione, all’uso delle parole giuste nei contesti giusti (e all’abbandono delle parole sbagliate nei contesti sbagliati).
E sappiamo benissimo come questa attenzione, nella sua complessità, abbia spesso raggiunto risultati importanti e, non dico altrettanto spesso ma nemmeno così raramente, abbia anche prodotto degli strani mostri che potremmo definire burocratici, procedurali.
Uno di questi mostri è certamente la fissazione in base alla quale un personaggio di un film o di una serie tv dovrebbe essere interpretato da un attore o attrice che condivida col personaggio alcuni tratti fondamentali, se questi tratti sono considerati in qualche modo “sensibili”: interpreti gay per personaggi gay, con reali disabilità se devono interpretare un personaggio disabile, e via dicendo.
Non credo serva discutere molto sulla follia di questa impostazione (la cui idiozia è palese non appena ci si rende conto che, in teoria, se solo un attore gay può impersonare un personaggio gay, allora un personaggio etero dovrebbe essere interpretato solo da attori etero, cosa che però, improvvisamente, incontra lo sfavore di tutte le anime belle), ma ci torna utile per la serie di oggi, ovvero A Gentleman in Moscow: il protagonista è infatti un personaggio completamente russo, di nome, di origine, di lignaggio, di cultura, che è interpreto dallo scozzesissimo Ewan McGregor, la cui britannicità è stata spesso ben al centro del suo lavoro.
Perché nessuno si indigna (per fortuna, aggiungerei)? Semplice, perché le due nazionalità (britannica e russa) non sono considerate in alcun modo sensibili, non sono minoranze, non vanno protette, e quindi chi se ne frega, anche se naturalmente pure il registro delle minoranze meritevoli di protezione è tutt’altro che scientifico e scritto nella pietra.
Tanto più che oggi, se qualcuno si azzardasse a usare un protagonista russo per una serie americana, forse qualcuno avrebbe da ridere per tutt’altri motivi.
Fatta questa premessa abbastanza fuori luogo, veniamo al dunque.
A Gentleman in Moscow va in onda su Showtime e arriverà su Paramount+ (anche in Italia) dal prossimo 17 maggio. È creata da Ben Vanstone a partire dall’omonimo romanzo di Amor Towles ed è una limited series, otto episodi e poi, salvo strane sorprese, mai più.
Siamo nella Russia post-Rivoluzione (quindi fine anni Dieci / primi anni Venti del Novecento) e il conte Alexander Ilyich Rostov (McGregor) fa ritorno in patria da Parigi, trovando una nazione completamente conquistata dai proletari e operai, che di certo non vedono di buon occhio gli aristocratici figli di un mondo che ormai considerano passato e colpevole.
Normalmente, uno come Rostov potrebbe anche essere ucciso così su due piedi, ma il nostro in realtà riesce a scampare la forca per alcune sue azioni che effettivamente sono piaciute ai rivoluzionari. Resta però un aristocratico a cui non può essere concesso di mantenere il suo vecchio potere e prestigio, e nemmeno la libertà. Ecco allora che Rostov viene condannato a una pena singolare: il tribunale bolscevico gli intima di rimanere per il resto della sua vita agli arresti domiciliari, da scontarsi nel lussuoso Hotel Metropol di Mosca.
Per motivi che vedremo a brevissimo, questa è una serie la cui recensione andrebbe fatta solo dopo l’ultimo episodio, con l’unico problema che 1 non so se ci arrivo, e 2 vale comunque la pena di evidenziare una perplessità che non può non sorgere dopo il pilot.
Un pilot che, in realtà, ha dei bei numeri: c’è sicuramente del gusto e della qualità nel modo in cui il Metropol ci viene presentato, fin dalle primissime pennellate, come un mondo piccolo ma vividissimo, in cui è possibile incontrare ogni sorta di personaggi, in cui le ampie e lussuose suite possono convivere accanto alle stanzette sudice e spoglie, e dove l’antica nobiltà di Rostov può trovare amici e nemici dietro ogni angolo.
Un contesto in cui il nostro McGregor, affascinante come suo solito, capace di sostenere tutte le sfumature di una serie che passa volentieri dal dramma alla (quasi) commedia, si muove con assoluta destrezza, compiaciuto nei suoi abiti di alta sartoria e decorato con i paio di baffoni che sembrano il biglietto da visita verso i poveri plebei che vorrebbero contenere il suo naturale carisma.
Nell’intreccio e nelle sue possibili evoluzioni ci sono anche considerazioni politiche potenzialmente interessanti.
Se da una parte la Rivoluzione d’Ottobre è considerata un momento assai rilevante della storia europea, e tutto sommato uno scarto positivo e culturalmente fecondo rispetto al passato (pur considerando le terribili derive autocratiche degli anni successivi), in questo caso l’eroe della serie (un eroe, fra parentesi, subito amabile) è un nobile che quella stessa rivoluzione vede come nemico.
È però lo stesso Rostov che, lungi dal voler conservare a tutti i costi i suoi privilegi, sottolinea fin dal primo episodio che i tempi cambiano e che anche i nobili si devono adattare.
Già qui si capisce (ma ammetto di avere dato una sbirciatina alla descrizione del romanzo, che non ho letto) che A Gentleman in Moscow proverà proprio a mescolare le carte: rifuggendo le legittimità di una rigidissima divisione fra classi (una divisione considerata dogma da molti dei personaggi), la serie vuole raccontare proprio l’umanità oltre le etichette, trasformando Rostov in un osservatore immobile della Storia nel suo farsi, e un testimone del fatto che il vero miglioramento dell’umanità non riguarda la vittoria di una classe sull’altra, ma il rispetto e l’amore fra gli esseri umani a prescindere da dove arrivino.
Il vero problema, o meglio, la paura di un problema che può sorgere guardando il pilot di A Gentleman in Moscow riguarda proprio la sua inevitabile staticità spaziale: tutti gli otto episodi, salvo flashback e fantasie varie, sono ambientati nello stesso posto, facendoci temere per una possibile ripetitività.
Tuttavia, senza neanche stare a pensare a certe serie che reggono benissimo pur funzionando più o meno allo stesso modo (tipo Only Murders in The Buinding), a farci ben sperare c’è la consapevolezza che se lo spazio è compresso, il tempo non lo è: se sarà fedele al romanzo, la serie racconterà molti anni della vicenda di Rostov, e in un periodo così lungo molte cose possono cambiare, molti amici, affetti e amori possono andare e venire, e molte sorprese possono spuntare fuori, anche se si rimane sempre nello stesso posto.
Non credo sia il caso di scomodare le posizioni altissime della nostra classifica, almeno per il momento, ma A Gentleman in Moscow è sicuramente una serie da tenere d’occhio, perché può perdersi per strada, ma anche dare frutti inaspettati.
Staremo a vedere.
Perché seguire A Gentleman in Moscow: l’idea è interessante, la messa in scena ricca, Ewan McGregor sempre una garanzia.
Perché mollare A Gentleman in Moscow: per la paura che in otto ore una storia tutta ambientata in un unico albergo possa diventare ridondante.