27 Febbraio 2024

Avatar – La Leggenda di Aang: un buon adattamento, senza esagerare di Diego Castelli

La versione live action del famoso cartone animato riesce a conservare diverse qualità dell’originale, pur tra qualche inciampo e difficoltà

Pilot

Ed eccoci qui, ancora una volta impegnati in un compito facilissimo e per nulla stressante, cioè provare a giudicare un live action di Netflix tratto da una serie animata adorata da molti fan accaniti, e in cui è facilissimo trovare gente pronta a dare fuoco alla propria madre per poter dire “io ho la Verità e te capisci una sega”.

Al momento della pubblicazione, sono passati solo pochi giorni dall’uscita sulla piattaforma dei primi otto episodi curati da Albert Kim, che riprendono quello che è a tutti gli effetti considerato un capolavoro dell’animazione seriale occidentale, quell'”Avatar The Last Airbender” andato in onda dal 2005 al 2008, creata da Michael Dante DiMartino e Bryan Konietzko e oggi disponibile proprio sul Netflix italiano.

Vi traduco giusto due opinioni-lampo di due giornalisti, citati da da wikipedia.
James Marsh del South China Morning Post scrive: “I devoti incalliti del materiale originale troveranno inevitabilmente piccoli cambiamenti estetici su cui cavillare, ma i critici avranno difficoltà a discutere contro il fatto che il cuore di Kim e della sua troupe sia nel posto giusto.”
Kelly Laura di USA Today, invece, scrive: “Una copia corrotta dell’originale. Dopo due tentativi falliti con il live action (l’altro è il film di M. Night Shyamalan, uscito nel 2010, ndr), è chiaro che Avatar è grande grazie alla sua animazione, non a dispetto di essa”.

Insomma, tutti d’accordo, giusto?

Andiamo con ordine.
Avatar, ovviamente da non confondere con la saga cinematografica di James Cameron, è una serie animata ambientata in un mondo di fantasia ma dalle atmosfere esplicitamente orientaleggianti, in cui l’equilibrio fra le quattro grandi nazioni del Fuoco, dell’Acqua, della Terra e dell’Aria, è garantita dalla presenza di un grande saggio, l’Avatar appunto, che è l’unico/a a saper manipolare tutti i quattro gli elementi, a fronte di uomini e donne, appartenenti alle varie nazioni, che sanno “dominarne” solo uno.

Con “dominare” si intende la capacità di manipolare gli elementi con il pensiero e una serie di gesti. Detta in soldoni, significa sparare fuoco dalle mani, creare muri di ghiaccio, erigere pareti di roccia, generare potenti vortici d’aria, e tutte le altre possibili applicazioni, sia civili che militari, di questi poteri.

Il protagonista di Avatar è Aang, un ragazzino che è, per l’appunto, la nuova incarnazione dell’Avatar, e che per un incidente finisce ibernato per cento anni, tempo sufficiente affinché la nazione del Fuoco possa sterminare tutti i dominatori dell’Aria (di cui Aang faceva parte) e scatenare una guerra per il predominio ai danni delle altre nazioni.
Il risveglio di Aang dai ghiacci e la sua conoscenza con due giovani della nazione dell’Acqua, Katara e suo fratello Sokka, dà il via a un’avventura in cui Aang dovrà imparare a essere Avatar per davvero e riportare equilibrio del mondo.

E a proposito di equilibrio, come già sapete noi non siamo un sito che ama i confronti, pur sapendo che esistono casi in cui il materiale originale, quale che sia, si pone all’attenzione e alla memoria degli spettatori con maggior forza rispetto ad altri.

Avatar è certamente uno di questi casi, perché la serie animata è molto famosa, perché Netflix stessa la mette a disposizione, e perché tutta l’operazione è fatta anche (se non soprattutto) per incuriosire chi conosceva almeno in parte la serie del 2005.
Tanto più che si arriva dal successo dell’operazione One Piece, che per Netflix ha rappresentato una presa di coscienza forte: in questo preciso momento storico, più gli spettatori percepiscono fedeltà al materiale originale, più si entusiasmano (su cosa sia la “fedeltà” si aprirebbe un altro dibattito, ma diventa un discorso lungo).

Detto questo, proviamo a valutare questa nuova Avatar per quello che è, con un piccolo occhio per quello che era.
Intanto possiamo dirci che gli otto episodi della prima stagione di Netflix coprono più o meno tutta la storia contenuta nella corrispondente prima stagione del cartone (20 episodi da venti minuti circa), con molte somiglianze, soprattutto nei punti principali della trama, e qualche rilevante differenza: per esempio, viene pienamente introdotto nella prima stagione un personaggio come Azula, sorella di Zuko, il principe della nazione del Fuoco che fin dal primo episodio rappresenta il principale antagonista della serie o, quanto meno, quello che con più evidenza si pone come nemesi di Aang.

Nel complesso, comunque, la storia è quella che si conosceva, ovvero il percorso di crescita di un ragazzo, anzi tre, anzi qualcuno in più, che attraverso molte peripezie, molte scelte difficili, più bisonti volanti e scimmiette simpatiche, apprendono non solo nuove tecniche di combattimento, ma soprattutto gli strumenti per diventare adulti responsabili.

Da questo punto di vista, e guardandola “da sola”, la serie di Netflix funziona.
Siamo comunque all’interno di un prodotto che possiamo considerare per ragazzi, e si vede la precisa intenzione (che era propria anche del cartone) di avvicinare il giovane pubblico a tematiche serie, adulte, senza per questo doverli traumatizzare.
In Avatar si parla di avventura e amicizia, certo, ma anche di responsabilità, di guerra, di perdita e sacrificio. Di invidia e gelosia, di rapporti tossici fra genitori e figli, di condanna, di perdono, del ruolo della donna nella società. E lo si fa all’interno di una storia di avventura in cui la sceneggiatura procede in modo lineare, chiaro, permettendosi delle sorprese ma evitando i colpi troppo duri, garantendo la possibilità di avere sempre sott’occhio il quadro generale.
Tutto questo è già evidente dai primi otto episodi, e quasi tutti i personaggi, pur tra qualche inciampo e qualche forzatura, riescono a compiere parte di quel percorso che servirà a farli diventare grandi.

Se facciamo il paragone col cartone, invece, qualcosa si perde. In parte è una questione di compressione temporale, in parte una semplice difficoltà a cogliere tutte le sfumature di tutti i personaggi.
Se vista con in testa l’originale, la Avatar di Netflix appare sempre centrata, ma anche più superficiale e meno stratificata (e pure meno ironica, a dirla tutta).

Lo si vede per esempio nella scrittura di certi personaggi come lo zio Iroh, l’amico-parente-mentore di Zuko che nel cartone ha la specifica funzione di uno che è contemporaneamente saggio e amabile MA ANCHE appartenente al gruppo dei cattivi, in una dinamica da ying e yang che vuole mostrare i punti oscuri anche nelle luce e, viceversa, i possibili bagliori nell’oscurità: è così anche nel live action, ma il minor tempo a disposizione e dialoghi meno rifiniti fanno perdere di forza e simpatia al personaggio, conservandone la funzione narrativa ma diluendone l’impatto e il potere evocativo.

In termini visivi si potrebbe fare un discorso simile.
Presa di per sé, la Avatar di Netflix ha alcuni buoni pregi e alcuni difetti evidenti. L’uso della computer grafica è costante e, per il tipo di prodotto, quasi inevitabile, ma i risultati sono altalenanti: accanto a scene di grande respiro, bei paesaggi dettagliati, creature fantastiche ben realizzate e combattimenti coinvolgenti, ci sono anche primi piani con green screen troppo palesi, ambientazioni che sanno di finto, vere e propri cadute di stile (come certe luci blu nel mondo degli spiriti, che sembra di vedere un film anni Ottanta).

Per certi versi va comunque meglio di One Piece, dove l’abbondanza di personaggi dai lineamenti e dalle proporzioni esagerate rendeva il live action troppo umano o, al contrario, troppo pupazzoso, pur nella evidente cornice della fedeltà di cui si diceva. In questo, Avatar riesce meglio e, dopo qualche imbarazzo del pilot, è abbastanza facile entrare nella cornice estetica della serie e farsela piacere.

Di nuovo, però, qualcosa stona nel confronto con il cartone: nonostante un certo invecchiamento (parliamo di un’animazione di quasi vent’anni fa, incomparabile con certe meraviglie viste oggi sulla stessa Netflix, da Arcane e Blue Eye Samurai), lo stile leggero e scanzonato del cartone, unito alle qualità guizzanti, fluide, “peterpanesche” del protagonista, non trova adeguata trasposizione nel live action, che spesso risulta più legnoso e rigido.

L’impressione complessiva, insomma, è quella di una buona serie, con un bel cast (fra parentesi, quasi tutti molto aderenti all’originale, a partire da Gordon Cormier-Aang e con menzione speciale per Ian Ousley-Sokka), e una discreta capacità di divertire mantenendo alcuni punti saldi dell’amatissima narrazione del cartone.

Già questo basta ad Avatar per stare uno o due gradini sopra molti live action di Netflix del passato più o meno recente.
Poi certo, reggere il confronto con l’originale, soprattutto se quell’originale ce l’avete scolpito nel cuoricino, è difficile, e qui la serie di Netflix va effettivamente in affanno per più di un motivo.

Volete dei voti che riassumano la faccenda?
9 al cartone, 7 al live action.
Direi che così si capisce il senso, giusto?

Perché seguire Avatar: La leggenda di Aang: si impegna molto per trattenere il più possibile le “cose belle” dell’originale, e ci riesce più spesso di quanto si temesse.
Perché mollare Avatar: La leggenda di Aang: se avete amato il cartone, salteranno più facilmente all’occhio alcune compressioni e superficialità.



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