Echo su Disney+ – Una superflua miniserie Marvel di Diego Castelli
La miniserie tratta da Hawkeye e teoricamente fruibile da sola è un miscuglio di sceneggiatura goffa e tensione assente
L’etichetta “Marvel Spotlight” fece la sua comparsa sui fumetti negli anni Settanta, ed era una sorta di laboratorio in cui Stan Lee e soci potevano esplorare le potenzialità commerciali di certi personaggi in un ambiente dichiaratamente slegato dalle grandi saghe Marvel, con l’obiettivo di scovare gli eroi ed eroine con maggiori possibilità di successo per poi trasferirli nelle collane più importanti.
Ora l’etichetta Marvel Spotlight è arrivata anche sul piccolo schermo, con l’idea di identificare un preciso sottogenere di prodotti a marchio Marvel-Disney+: sono quelle serie che, pur facendo tecnicamente parte dell’ormai ampio Marvel Cinematic Universe, non hanno bisogno di chissà quale conoscenza degli altri film (e fumetti) della saga.
Insomma, serie che teoricamente possono essere viste da chiunque anche “per prime”.
Da una parte sembra una bella idea, un modo per avvicinare al MCU anche persone che finora se ne sono tenute alla larga. Dall’altra, però, sembra quasi un’ammissione di perdibilità: le serie e i film legati al MCU sono già moltissimi, se poi ne aggiungete pure altre che sono in qualche modo “a caso”, non mi invogliate più di tanto.
E qui arriva Echo.
Echo è la prima serie marchiata Spotlight, ed è uno spinoff di Hawkeye.
Ma come, non si era detto che erano serie indipendenti? E come fa a essere indipendente se è uno spinoff di una serie dove il personaggio principale era stato originariamente presentato?
Domanda legittima, e non hai ancora sentito nulla: il finale di Echo, infatti, avrà chiare ripercussioni su un altro pezzo di MCU, quindi indipendente il ciufolo.
Se questo corto circuito, già di per sé, non promette nulla di buono, poi ci sono i cinque effettivi episodi di Echo, scritti da Marion Dayre, già sceneggiatrice di molti episodi di Better Call Saul e della bella The Act.
Cinque episodi in cui l’ex cattiva di un serie secondaria deve trovare il modo di interessare, appassionare e divertire un pubblico già bombardato di film e serie a tema supereroi, e che di lei sa poco e niente.
Auguri.
Con qualche minimo flashback (ma non era una serie indipendente?) apprendiamo fin da subito qualcosa del recente passato di Maya Lopez (Alaqua Cox), ex capa della Mafia della Tuta e in qualche modo “figlia adottiva” del signore del crimine Wilson Fisk, alias Kingpin, già conosciuto nella serie di Daredevil e ancora una volta interpretato dal (sempre bravissimo) Vincent D’Onofrio.
Dopo aver ferito Fisk a morte (o almeno così crede lei) Maya lascia la città e torna al paese natìo, quello dove c’è ancora sua nonna e l’adorata cugina Abbie, senza sapere che sulla sua testa c’è ancora una taglia voluta dallo stesso Fisk, che è sopravvissuto e non ci sta a lasciar passare il tradimento di quella che era la sua pupilla (ricordiamo che Fisk aeva ucciso il padre di Maya, cosa che lei aveva scoperto solo in un secondo momento).
Quello di Kingpin, comunque, non è solo un perverso amore simil-paterno: Maya è una guerriera di primordine, una capace di tenere testa allo stesso Devil in combattimento, e quindi Fisk vorrebbe intortarla di nuovo per recupere una pedina fondamentale del suo esercito di malavitosi.
Se ci aggiungiamo i pezzi relativi al suo passato e alla sua famiglia di nativi americani, quella di Maya è una storia relativamente semplice e comprensibile: un viaggio dall’oscurità alla luce, dalla criminalità insegnata e fomentata da Wilson Fisk, ex ragazzino traumatizzato e bullizzato che ora non è in grado di gestire alcun sentimento in modo sano, verso una sistema di valori più puro e antico, tramandato da una lunga tradizione di donne.
Insomma, una che era cattiva, che ammazzava la gente, ma che aveva in sé le potenzialità per diventare un’eroina, o quanto meno una che poteva uscire dal mondo dei cattivi Marvel per affrontare un percorso più stratificato.
E il problema di Echo però sta proprio qui: questo percorso, all’apparenza così chiaro e facile, inciampa in una serie di problemi piuttosto vistosi che rendono Echo non solo superflua all’interno del Marvel Cinematic Universe, ma piuttosto perdibile anche nei vostri pomeriggi.
Echo è fondamentalmente una serie d’azione, e quell’aspetto viene curato in modo abbastanza dignitoso. Niente di trascendentale, sia ben chiaro, e già questo basterebbe per rimanere un po’ indifferenti, ma almeno le scene di combattimento sono ben coreografate e divertenti, per quanto troppo poche.
Le vere difficoltà arrivano dalla sceneggiatura. Quella di Echo è una scrittura in cui tutti i pezzi del mosaico risultano soltanto giustapposti, avvicinati senza creare ponti solidi fra uno e l’altro.
Le motivazioni che spingono Maya a tornare a casa non sono abbastanza chiare/forti, la sua vaga (e dichiarata) intenzione di sostituire lo stesso Fisk alla guida del suo impero criminale non viene tradotta in alcun progetto concreto, il rapporto disfunzionale con lo stesso Fisk, che dovrebbe essere uno dei cuori della serie, non funziona quasi mai, perché raccontato attraverso incontri successivi in cui succede sempre tutto e il contrario di tutto, senza che i reciproci sentimenti trovino un’evoluzione coerente e convincente.
Il rapporto con il passato suo e delle sue antenate, poi, ripercorre in modo scolastico e davvero banale tutti i cliché di questo tipo di “chiamate dal passato”, con un serie di sogni e visioni che collegano in modo molto meccanico Maya alla sua ascendenza nativo-americana, mescolando la sua vicenda terrena con una componente soprannaturale di cui non si sente alcun bisogno, e che la porta ad avere dei poteri spiegati molto male e utilizzati ancora peggio, sempre in modo forzato, improvviso, posticcio.
Tanto per fare un altro esempio, anche nella sinossi di Disney+ ci viene spiegata quale sarebbe la caratteristica più rilevante di Maya, cioè la capacità di copiare a colpo d’occhio qualunque mossa o abilità vista in altre persone. Non mi ricordo se questa cosa veniva spiegata bene in Hawkeye (e non dovrebbe servire, a sentir loro), ma in questa miniserie questo aspetto non è spiegato bene, anzi direi che non è spiegato proprio, e Maya resta semplicemente una che “mena forte”.
Insomma, una serie confusa e banalotta, che mette in scena un percorso molto classico, ma che nonostante questo non viene gestito con efficacia, arrivando a una scena finale che è quasi ridicola, perché percepisci chiaramente quello che l’autrice vuole dire, ma ti rendi conto che per l’appunto te lo sta dicendo, non te lo sta facendo vivere.
Non c’è emozione, non c’è coinvolgimento, non te ne frega niente di nessuno dei personaggi.
L’unica cosa che sembra contare, di tutta questa faccenda, è l’elemento culturale e politico. Maya (che era così anche nei fumetti di fine anni Novanta, giusto per essere chiari) è una specie di paladina dell’inclusività: donna, sorda, senza una gamba, nativa americana, voi dite una minoranza e lei ne fa parte.
Questo aspetto diventa inevitabilmente centrale, e mette in contrasto tutta l’ascendenza femminile di Maya, che vuole darle poteri salvifici e guidarla verso la luce, con un maschio bianco e cattivo (bianco anche iconograficamente, considerando il famoso abito bianco di Wilson Fisk) che incarna tutto il Male da cui la povera Maya può essere traviata.
Non è un discorso illegittimo, ma ormai lo vediamo in talmente tante serie e film, che non può che suonare inevitabilmente stucchevole, visto e stravisto, banalissimo.
Il risultato paradossale è che il personaggio più interessante risulta proprio Fisk, non solo perché D’Onofrio dà una pista a tutti gli altri, ma proprio perché è quello più contrastato, deviante, morbosamente attraente.
Se torniamo alla questione iniziale, quindi, è facile immaginare dove finisce Echo: in un cestone di serie un tanto al chilo, dichiaratamente fuori dalla struttura portante del Marvel Cinematic Universe (nonostante l’ultima scena post credit), e allo stesso tempo incapace di imporre la sua protagonista come un personaggio di cui ci importi veramente qualcosa, che abbia una storia che spicchi in qualche modo.
A conti fatti, Echo diventa esattamente l’opposto di quello che voleva: invece di una serie a sé stante che parla di una potenziale, nuova eroina, può interessare al massimo come racconto di passaggio che approfondisce la vicenda di un ben noto cattivo.
Poteva andare meglio.
Perché seguire Echo: se non volete perdervi nemmeno un pezzo del Marvel Cinematic Universe, specie ora che Wilson Fisk sta per tornare in pompa magna nella nuova serie di Daredevil.
Perché mollare Echo: è una serie dalla scrittura zoppicante, che non riesce a creare un vero interesse intorno alla sua protagonista.