Blue Eye Samurai su Netflix – L’animazione quella bella di Diego Castelli
Forse la miglior serie d’animazione di Netflix dopo Arcane?
Recentemente ascoltavo una divertente puntata del podcast Tintoria in cui l’ospite era Carolina Crescentini, che per noi rimarrà sempre e solo la Corinna di Boris. Parlando delle sue esperienze di visione seriale, Crescentini dice che lei non riesce più a seguire le serie con un episodio a settimana, preferendo di gran lunga il binge watching, da lei visto come l’effettiva nuova frontiera della serialità.
Come ben sapete, qui a Serial Minds abbiamo l’idea opposta, che la “vera” serialità (lo metto fra virgolette perché, comunque, solo i Sith parlano per assoluti) sia quella diluita e che a volte, se non si ha addosso troppa pressione sociale, il meglio sarebbe spezzare il meccanismo del binge watching anche quando una certa stagione è offerta tutta in una volta dalla piattaforma.
È quello che mi è riuscito di fare con Blue Eye Samurai, serie d’animazione di Netflix creata da Michael Green (già sceneggiatore di Logan e Blade Runner 2049) e sua moglie Amber Noizumi.
Blue Eye Samurai è un tale gioiellino, che ho trovato doveroso prendermi un mese per vedere gli otto episodi, centellinandoli in modo da avere gli occhi, le orecchie e la mente sufficientemente pronti e ricettivi ogni volta che decidevo di mettere su una puntata.
Blue Eye Samurai è ambientata durante il periodo Edo in Giappone (XVII secolo), una fase storica in cui il paese si chiuse alle influenze esterne, impedendo l’arrivo di qualunque straniero (una politica nota col nome di “sakoku”).
In questo contesto, il protagonista Mizu è un maestro di spada di razza mista, nato da madre giapponese e padre occidentale (gli occhi blu del titolo vengono da qui), che ha giurato vendetta contro il proprio padre, di cui però non conosce l’identità: con ogni probabilità è uno degli ultimi quattro occidentali rimasti in Giappone, e Mizu inizia un viaggio di vendetta con lo scopo di trovarli e ucciderli tutti.
In questo percorso, Mizu parte dall’addestramento ricevuto dal fabbricante di spade Eiji, si ritrova con l’inaspettato aiutante Ringo, un cuoco senza mani che vuole diventare samurai, e incontra diversi personaggi, fra cui la principessa Akemi, non troppo contenta di essere destinata a un matrimonio combinato, e Taigen, spadaccino tutto onore e arroganza.
Ah, e bisogna aggiungere un piccolo dettaglio, che non è questo grande spoiler visto che si scopre dopo poche scene: Mizu in realtà è una donna e nasconde la sua identità femminile per potersi calare completamente in quella di un guerriero temuto e rispettato.
Roberta, una nostra fedele ascoltatrice di Salta intro, aveva definito Blue Eye Samurai come una sorta di Mulan diretta da Tarantino: ok, i film di Tarantino sono solitamente meno seriosi di questa serie, e ok, se un giapponese ci sente paragonare Blue Eye Samurai a un racconto di ispirazione cinese ci cazzia di brutto, però è vero che, per chi come noi ha visto Mulan da ragazzini, l’idea di questa fiera guerriera che finge di essere un uomo per combattere contro il male, all’interno di una messa in scena molto più adulta rispetto a un film della Disney, rende quel paragone abbastanza azzeccato.
Blue Eye Samurai è costruita intorno a una trama molto semplice, come spesso accade per le storie di vendetta di qualunque nazionalità, e la sua articolazione in varie sottotrame secondarie, legate ai personaggi citati più sopra, non ci permette comunque di distrarci dal nucleo della vicenda, cioè la corsa veloce, determinata, ossessiva di questa protagonista verso il suo obietivo.
Ma la vera forza della serie, o per lo meno l’elemento che garantisce un primo impatto impossibile da ignorare, è la qualità dell’animazione. Realizzata dallo studio francese Blue Spirit, con l’intento di ispirarsi ai film di Kurosawa e al personaggio di Zatoichi (mitico protagonista di una lunga serie di film tratti dalla penna del romanziere Kan Shimozawa), Blue Eye Samurai è stata realizzata con l’obiettivo dichiarato di sembrare un “dipinto in movimento”.
La missione è decisamente compiuta, con un misto di animazione 2D e 3D che restituisce la magia di un Giappone forse un po’ stereotipato ma certamente affascinante, e che passa da inquadrature calme e riflessive di valore effettivamente pittorico, a scene di straordinario dinamismo, in cui le coreografie dei corpi in combattimento assomigliano a danze fluide e coinvolgenti.
Abbeverandosi a una tradizione cinematografica e d’animazione da sempre caratterizzata da pose carismatiche, sguardi taglienti, movimenti improvvisi ed eleganti, Blue Eye Samurai è una festa per gli occhi, e una visione obbligata per chiunque ami l’ambientazione giapponese, le spade, i duelli d’onore.
(Qui e là ho anche visto qualche lamentela di persone particolarmente esperte di quel periodo storico, che hanno evidenziato alcune libertà di troppo, ma come sappiamo non esiste prodotto di finzione che non possa venire bocciato da spettatori particolarmente rigidi. Dove piazzare il confine dell’accettabilità è una scelta molto soggettiva, e per me in questo caso siamo ben al di qua di quel confine, proprio perché Blue Eye Samurai non vuole essere un documentario, ma la celebrazione di un certo immaginario e di un certo stile)
Al netto di una certa linearità narrativa, e di un interesse che nasce prima di tutto da una fascinazione visiva, Blue Eye Samurai è anche una serie che si porta dietro qualche strato più profondo, in relazione soprattutto al discorso che porta avanti sull’incontro/scontro fra culture, tema rilevante ora come lo era un secolo fa e come probabilmente lo sarà fra un altro secolo.
È tutto giocato su un sottile ma evidente sistema di contraddizioni, che i personaggi vivono senza renderse pienamente conto.
Da una parte, infatti, la serie ci racconta di un paese che lotta per preservare sé stesso contro l’influenza straniera: in questo contesto il cattivo è effettivamente un occidentale che porta armi e distruzione, e la protagonista si batte (indirettamente) per impedire che il suo mondo venga sporcato dalla vanità e dall’arroganza dell’Ovest.
Dall’altra parte, però, è la stessa protagonista a incarnare una precisa idea di cambiamento, vista non solo come inevitabile, ma pure come auspicabile: non solo è nata dall’unione fra due persone provenienti dai capi opposti del mondo, ma il suo stesso essere una donna che combatte, rifiutando quindi il ruolo che spetterebbe da tradizione a una femmina, la rende suo malgrado, o comunque inconsapevolmente, un modello di progressismo.
In questo, il suo personaggio è supportato dalla figura di Akemi, principessa destinata a un matrimonio combinato che non ci sta e vuole rimarcare la propria indipendenza, salvo poi prendere strade e decisioni che complicano ulteriormente anche questo scenario.
Blue Eye Samurai è dunque un’avventura lineare, visivamente affascinante, violenta e ritmata al punto giusto, che trova però ulteriore forza narrativa dal fatto di muoversi su un confine sottile: il senso di precarietà che percepiamo, e che ci spinge a seguire la vicenda con passione, non deriva solo dai pericoli corsi dalla protagonista, ma anche dalla sensazione che l’intero mondo in cui si muove sia sull’orlo di un grande rinnovamento, in cui però non è semplice stabilire quale sia la direzione giusta. Esistono valori e pratiche che meritano di essere preservate, altre che invece possono essere abbandonate, senza che però i personaggi (banalmente impegnati a sopravvivere) riescano ad avere un quadro chiaro e preciso della situazione.
La prima stagione ha un suo bel climax e un finale pieno, ma di fatto termina con un cliffhanger che promette grandi cambiamenti per un’eventuale seconda stagione.
Che io spero vivamente ci sia, perché di prodotti della cura e della solidità di Blue Eye Samurai non ce n’è mai abbastanza.
Perché seguire Blue Eye Samurai: Animazione di qualità eccelsa unita a una sceneggiatura chiara, ficcante, ma non banale.
Perché mollare Blue Eye Samurai: son spadaccini che se la credono un casino, e a qualche palato potrà suonare un po’ retorica.