A Murder at the End of the World – Il ritorno dell’autrice di The OA di Diego Castelli
Brit Marling scrive un thriller alla Agatha Christie, e ancora non sappiamo se a un certo punto diventerà una follia alla Brit Marling
Considerando che non avevo scritto una recensione “a caldo”, dopo il primissimo episodio, ho il sospetto che scriverne una appena dopo la metà della prima stagione di A Murder at the End of the World possa essere un errore, per motivi che ora andremo a esplorare.
(Per essere chiari, l’alternativa era aspettare la fine, che però arriva il 19 dicembre, in ritardo per la nostra classifica, e poi chissà se ho voglia di scrivere sotto Natale)
Mi sono infine deciso perché 1. non avevo in canna un’altra cosa di cui volevo scrivere, e 2. perché un certo senso di disorientamente che provo nel guardare la serie va testimoniato proprio nel suo farsi.
Buona parte dello spaesamento nel guardare A Murder at the End of the World – disponibile su Disney+ -deriva dal fatto che è una serie di Brit Marling, la creatrice di The OA in coppia con Zal Batmanglij (il cognome più esotico e contemporaneamente supereroistico del mondo), che però non sembra tanto una serie di Brit Marling, o forse non lo sembra abbastanza, o forse non lo sembra ancora.
La storia prende le mosse da Andy, riccone visionario, un po’ strambo e un po’ inquietante interpretato da Clive Owen, che organizza una specie di convention molto intima fra le nevi dell’Islanda.
A questa convention Andy ha invitato personalità provenienti da vari campi del sapere, dell’industria, della tecnologia, per confrontarsi sui temi di scottante attualità planetaria, dal riscaldamento globale all’intelligenza artificiale, con l’obiettivo di trovare soluzioni e sviluppi futuribili per l’umanità.
Fra queste persone c’è anche Darby (Emma Corrin, che avevamo visto nei panni della giovane Diana in The Crown), che al momento non è famosa e importante come certe altre figure invitate nel simposio, ma ha appena scritto un romanzo fra l’autobiografico e il true crime che ha avuto molto successo e che ha messo in luce le sue abilità di hacker e di investigatrice amatoriale.
Non a caso, a volerla in Islanda è stata soprattutto Lee, la moglie di Andy (interpretata dalla stessa Brit Marling) che ora fa la sposina e la madre, ma fino a poco tempo fa era anche lei un’hacker di grande fama nel giro degli smanettoni.
Ovviamente, non tutto va come previsto: quando uno degli ospiti muore in circostanze non chiare, Darby non accetta l’iniziale spiegazione del suicidio e capisce che, in quel remoto rifugio isolato dal mondo, qualche segreto ribolle sotto la superficie: bisogna indagare!
In realtà, il racconto procede su due binari temporali diversi: da una parte c’è il presente che abbiamo appena visto, e poi c’è il passato, in cui Darby si dedicava all’attività che poi sarebbe finita al centro del suo libro, ovvero la ricerca di pericolosi serial killer fino a quel momento sfuggiti alle maglie della giustizia.
Durante questa attività di detective in erba, Darby aveva conosciuto Bill (Harris Dickinson), con cui aveva costruito un rapporto molto forte e che poi sarebbe diventato un rinomato artista, anch’egli invitato al simposio di Andy qualche anno dopo.
Dopo quattro episodi (su sette complessivi) trovo che l’opinione su questa serie possa essere parecchio influenzata dal sapere chi è la sua autrice e da dove arriva (o almeno è stato, ed è, il mio caso) .
Se infatti consideriamo che Brit Marling è la creatrice di The OA, una delle serie più strane e visionarie di Netflix, a prescindere dal fatto che ci sia piaciuto o meno, A Murder at the End of the World risulta sorprendentemente “normale”.
La dinamica che porta Darby alla ricerca della verità su una scena del crimine isolata e popolata da potenziali colpevoli, rimanda in modo chiaro a tutta una tradizione del giallo che risale fino ad Agatha Christie, anche se Darby non assomiglia granché a Poirot.
Poi certo, esistono degli elementi devianti, sia a livello macro (l’atmosfera complottista che suggerisce la presenza di grossi segreti incoffessati, che danzano sull’orlo della fantascienza e dell’horror distopico) sia a livello micro (come l’assistente virtuale che, nei primi tre episodi, diventa una specie di dottor Watson futuristico per la mente sherlockiana di Darby).
A conti fatti, però, non ci sembra di allontanarci in modo così vistoso dalle classiche dinamiche del genere crime, e di quella specifica sfumatura dedicata alle indagini condotte in posti isolati dal mondo.
Questo scenario porta a reazioni diverse a seconda delle aspettative che si hanno su Brit Marling: mio padre non sa chi sia, non ha visto The OA, e per quanto lo riguarda sta seguendo una serie thriller magari un po’ particolare ma in fondo non rivoluzionaria, e se la gode pure.
Chi invece conosce Brit Marling e si ricorda bene le (consapevoli) stramberie di The OA, non può che tenere occhi e orecchie bene aperti, alla continua ricerca di elementi pazzerelli che tradiscano l’intenzione dell’autrice di prendere questo genere così codificato e ribaltarlo completamente in qualche modo ancora imprevedibile.
Quando vi dicevo che forse era un errore scrivere questa recensione adesso, era perché potrebbe invecchiare prestissimo, visto che ogni momento pare buono per quell’operazione di ribaltamento che continuiamo ad aspettarci nonostante una prima metà di stagione più ordinaria del previsto.
Peraltro, sono indeciso su cosa effettivamente desidero: a me The OA non era piaciuta granché (eufemismo), ma non tanto per la volontà di stupire, che mi va sempre bene, quanto per i modi con cui si era deciso di farlo (ho ancora negli occhi quella gente che ferma le sparatorie facendo yoga, insopportabile…).
In questo senso, sto certamente apprezzando A Murder at the End of the World perché lo trovo un thriller intrigante, con una protagonista molto in parte, e con un buon equilibrio fra l’indagine pura, l’esplorazione del personaggio principale, e quei piccoli tocchi di mistery-quasi-fantasy che stimolano dubbi di portata cosmica.
Allo stesso tempo, credo sarei deluso se, alla fine, Brit Marling non provasse a dare effettivamente una qualche robusta sterzata verso l’assurdo, se insomma questo percorso, finora abbastanza lineare, continuasse su un binario dritto fino a una conclusione incastrata dentro cornici molto tradizionali.
E dico questa cosa sapendo che non sempre le scelte dell’autrice in questo senso mi sono piaciute, ma sapendo che di storie ordinarie ne possiamo trovare ovunque, mentre esplorare nuove strade è sempre un approccio da incoraggiare, tanto più se hai già una certa fama in questo campo.
Insomma, dopo quattro episodi di A Murder at the End of the World, cioè più della metà, non ho ancora completamente capito che serie sia, né ho preso una decisione definitiva su quello che vorrei che fosse.
Accanto a me e a noi, che siamo qui in una community abbastanza impallinata di serie tv e sappiamo chi è Brit Marling, c’è poi un pubblico probabilmente assai più vasto che sta semplicemente guardando un thriller ambientato in Islanda, e che non sa i rischi che sta correndo: non sa cioè che da un momento all’altro potrebbe guardare un cugino di Blade Runner o qualche altra folle distopia fantascientifica.
L’impressione, a conti fatti, è che qualcuno alla fine rimarrà deluso, che sia chi pensava di essere comodamente approdato in un thriller vecchia scuola, o chi invece confida(va) in un twist da spalancare la bocca e il cervello. Contemporaneamente, però, c’è anche qualcun altro che potrebbe essere molto soddisfatto, e io spero di finire fra questi.
Sicuramente ne riparleremo, qui e/o nel nostro podcast.
Ai posteri l’ardua sentenza, dove i posteri siamo tutti noi fra tre settimane.
Perché seguire A Murder at the End of the World: è un thriller di bella atmosfera, dal futuro misterioso e intrigante.
Perché mollare A Murder at the End of the World: perché magari volete aspettare che finisca e che qualcuno vi dica se è un semplice crime o lo sembra e basta.