The Curse su Paramount+ – Una serie a tutto cringe di Diego Castelli
Una grande Emma Stone in una serie piccola e piena di consapevoli imbarazzi
Quello della cringe comedy è un preciso sotto-genere della comicità, in cui una parte rilevante del divertimento (un divertimento strano, per certi versi disturbante) viene da personaggi che producono o si trovano invischiati in situazioni imbarazzanti. Questo “imbarazzo” può assumere diverse sfumature, ma quello più tipico di questo genere riguarda essseri umani che se la credono un casino e che improvvisamente si trovano in situazioni che sbertucciano questo loro egocentrismo, mostrandone la stupidità o l’inadeguatezza, a prescindere dal fatto che il detto personaggio se ne accorga o meno.
È una tecnica tipica del mockumentary, e uno degli esempi più facili da fare è quello di Michael Scott in The Office, un protagonista che pensa di essere chissà chi, e che puntualmente si mette in imbarazzo facendo o dicendo sempre la cosa sbagliata, facendoci ridere del suo essere perennemente fuori luogo, ma trasmettendoci anche una curiosa forma di disagio, il cringe appunto.
Si potrebbero fare anche altri esempi, non necessariamente mockumentary, da Parks and Recreation a The Mindy Project, passando per praticamente tutto ciò che coinvolga Will Forte (tipo The Last Man on Earth).
Oggi però parliamo di una serie di Paramount+ che prende il concetto di cringe comedy e lo spoglia di buona parte del divertimento più spicciolo, per lasciarci con il senso più profondo di personaggi che proprio non ce la fanno.
Parliamo di The Curse.
Creata da Nathan Fielder e Benny Safdie, che sono anche fra i protagonisti, e impreziosita da un volto femminile di grande richiamo come quello di Emma Stone, The Curse racconta la vita di due coniugi, Asher e Witney, che sembrano avere tantissimo a cuore la piccola comunità di Española, nel Nuovo Messico. Costruiscono case a basso impatto ambientale che cercano di vendere a poco prezzo, trovano lavoro ai residenti, e in generale cercano di fare business senza per questo sacrificare la vita serena della comunità.
O almeno questo è quello che dicono loro, forse perfino quello in cui credono, ma non necessariamente quello che succede. Per sostenere i loro progetti, infatti, Asher e Witney stanno anche girando un documentario prodotto da Dougie, che li segue quotidianamente nella loro attività idealmente filantropica, e che serve soprattutto a dargli visibilità, ben oltre il mero altruismo.
Il problema è che, molto presto, ci accorgiamo che le cose buone che i due protagonisti dicono di fare non gli riescono per niente bene, che il documentario sta venendo uno schifo, che la gente che li conosce finisce per odiarli, e che, in generale, più i due si impegnano per far funzionare le cose, e più le rovinano.
La maledizione a cui fa riferimento il titolo è in realtà una cosa piccola, ma che accade nel primo episodio e poi si riverbera come una sorta di sottile tormentone sugli episodi successivi: a un certo punto, Asher si fa riprendere mentre dà dei soldi a una bambina che vende biscotti, solo che in quel momento ha solo un biglietto da cento.
Dopo aver girato la scena, Asher vorrebbe riavere il biglietto da cento per cambiarlo e dare venti dollari alla bambina, ma la piccola non capisce questo scambio, e semplicemente vede l’uomo che le ha dato i soldi nel tentativo di riprenderseli, decidendo di maledirlo per il suo comportamento.
Questo battibecco, con l’uomo che sfila i soldi dalla mano della bambina, viene ripreso dalle telecamere, e da lì in poi sembra che i nostri (ma che poi saranno davvero “nostri”?) non ne facciano più una giusta.
Come avrete già capito, non c’è un momento in cui i due protagonisti, ma soprattutto Asher, non cerchino di comportarsi in un modo che a loro sembra retto, razionale ed eticamente ineccepibile, e che invece ai nostri occhi diventa prestissimo imbarazzante, meschino, perfino grottesco.
Il motivo sta sostanzialmente nel fatto che i due hanno il cuore molto meno nobile di quello che dicono e pensano: sembra che i soldi non siano un problema, e invece lo sono eccome; vogliono fare del bene, ma è anche importante che vengano ripresi mentre lo fanno; vogliono raccontare i loro progetti alla comunità, ma non accettano che i giornalisti facciano domande scomode; cercano di porsi come persone dai valori saldi e dall’autostima indistruttibile, ma non sanno tenere testa a nessuno che li metta anche poco in discussione.
C’è una scena, nel terzo episodio (l’ultimo ad andare in onda prima di scrivere questa recensione), in cui i due, dopo giorni di stress legati anche al tentativo di avere un bambino, vivono un momento molto spontaneo e divertente mentre si tolgono i vestiti e Witney rimane impigliata in un maglione.
Sembrerebbe un bel momento distensivo per la coppia, se non fosse che alla donna viene subito in mente di capitalizzarlo, riproducendo forzatamente quei pochi istanti di gioia per poterli registrare e caricare sui social, così da dare di loro un’idea fresca e divertente per i follower.
Inutile dire che no, i due non sono spontanei né divertenti, quel momento è stato un caso, e di certo il tentativo di riprodurlo a tavolino non potrà mai funzionare, aggiungendo imbarazzo all’imbarazzo.
Naturalmente qui dentro c’è una critica esplicita al modo in cui costruiamo le nostre fittizie identità in rete, alle maschere che da sempre indossiamo, ma che i social hanno reso parte integrante e pesantissima delle nostre vite, e questa dinamica vale per le molte altre volte in cui Asher e Whitney cercano di apparire all’esterno, ma anche a loro stessi, come persone capaci e meritevoli, dimostrando ogni volta, con diabolica precisione, l’esatto contrario.
The Curse, come si è capito, appartiene a un sottogenere del sottogenere, ha la pasta, il passo e l’atmosfera da serie indie (nonostante la presenza di una premio oscar famosissima), e sicuramente non punta al grande pubblico, dando per scontato che una discreta fetta di spettatori potenziali non sarà minimamente interessata a questo genere di comicità.
Allo stesso tempo, è anche una serie che quella comicità così particolare la fa proprio bene. Quando guardi la cringe comedy vuoi che ti faccia venire la pelle d’oca per l’inadeguatezza dei personaggi, e vuoi godere della creatività con cui sceneggiatori e attori hanno sapuro costruire nei dettagli queste scene così imbarazzanti, accumulando strato dopo strato per partire da una situazione tutto sommato normalissima, arrivando però a un momento in cui nessuno è più in grado di smarcarsi dall’idiozia imperante.
Tutto questo effettivamente succede e largo merito va dato proprio agli interpreti. Nella scena citata in precedenza, nemmeno la più forte da questo punto di vista ma ottima da usare come esempio, Emma Stone fa un lavoro superbo, perché vediamo la spontaneità delle sue risate iniziali, salvo poi percepire altrettanto chiaramente la distonia della versione storpiata e forzata di quello stesso entusiasmo.
Una comicità del genere funziona solo se riesci a credere che i personaggi siano effettivamente invischiati in una situazione tanto imbarazzante quanto impossibile da risolvere, e non c’è dubbio che questo succeda.
Ero indeciso se parlare di questa serie dopo tre episodi, o se invece aspettare addirittura la fine. Questo perché, per quanto lo stile e il tono siano ormai chiari, meno scontato è capire dove andrà a finire, quali tipi di vette (o abissi) di imbarazzo potrà inventare, ma anche se riuscirà a tenere desta l’attenzione lavorando sempre nello stesso modo, con una tecnica di intrattenimento rischiosa perché capace di mettere gli spettatori in una posizione scomoda ma non necessariamente apprezzabile sul lungo periodo (in questo senso, episodi un po’ più corti, specie il primo, sarebbero stati da preferire).
In ogni caso, se siete fra quei serialminder che amano esplorare territori nuovi e un po’ di nicchia, The Curse è pensata espressamente per voi. Magari non vi piacerà, ma certo vale la pena provare.
Perché seguire The Curse: si pone un obiettivo comico molto preciso e lo raggiunge.
Perché mollare The Curse: quella specifica comicità, peraltro gestita in modo così pesante, non è per tutti.