The Fall of the House of Usher – Mike Flanagan omaggia Edgar Allan Poe di Diego Castelli
Su Netflix, il creatore di Hill House e Midnight Mass costruisce un racconto politico e orrorifico a partire da uno dei grandi maestri del brivido
OCCHIO CHE CI SONO SPOILER
Ho avuto un rapporto strano con The Fall of The House of Usher, la miniserie di Mike Flanagan che conclude il rapporto fra la piattaforma e l’autore di The Haunting of Hill House e Midnight Mass, in procinto di passare a Prime Video dove sta lavorando a un progetto per nulla ambizioso, ovvero l’adattamento seriale della saga de La Torre Nera di Stephen King.
Un rapporto strano, dicevo, perché dopo due episodi iniziali non troppo convincenti, la serie accelera verso puntate più efficaci, offrendo spunti di analisi anche molto diversi e non tutti allo stesso livello, e lasciandomi con sensazioni discordanti.
Ciliegina sulla torta, un bel tot di recensioni altrui (che non dovrei mai leggere prima di scrivere le mie, ma mi faccio tentare anche per paura di essermi perso qualcosa) in cui certi aspetti della miniserie vengono esaltati in un modo che mi è parso eccessivo, al punto da rischiare di farmi compensare con troppo vigore.
Vabbè, comunque proviamo.
Teoricamente tratta da un racconto di Edgar Alla Poe con lo stesso titolo, The Fall of The House of Usher è in realtà una cosciente e libera espansione di quella storia, al punto da trasformare la serie in una specie di omaggio a 360 gradi dell’autore americano.
Diciamocelo subito così non ce lo diciamo più: per i fan di Poe, la serie trova uno dei suoi maggiori pregi nella ferma e appassionata volontà di Flanagan di costruire una complesse rete di citazioni e rimandi all’opera letteraria del maestro, che si tratti di piccoli dettagli come il nome di praticamente tutti i personaggi o i titoli degli episodi, di strutture narrative prese e riadattate, di simbolismi e metafore (per esempio l’uso degli animali, dai gatti neri ai corvi), fino ad arrivare alla vera e propria citazione letteraria con voce fuori campo.
Come da prassi di Serial Minds, non consideriamo la fedeltà di una serie alla sua matrice letteraria (in questo caso, più che di fedeltà, dovremmo parlare di amore) un elemento dirimente di giudizio, perché se The Fall of The House of Usher fosse apprezzabile e comprensibile solo ai fan più esperti di Edgar Allan Poe, sarebbe una serie monca.
Allo stesso tempo, è pure giusto notarlo, questo amore e devozione, e applaudire Flanagan per la capacità di esprimerlo in modo coerente ed elegante, offrendo un gioco citazionistico sicuramente gustoso per tutti gli estimatori di Poe, e che potrebbe pure essere il centro unico e solo di tutt’altro tipo di recensione.
Non questa però.
The Fall of the House of Usher racconta, guarda un po’, della famiglia Usher, il cui capofamiglia Roderick (Bruce Greenwood) è anche il narratore della storia: lo vediamo infatti riassumere e descrivere gli eventi della sua vita e, in particolare, degli ultimi giorni, a C. Auguste Dupin (Carl Lumbly), procuratore che da tempo cerca di incastrare gli Usher per una serie di brutte manovre aziendali.
Roderick è infatti a capo della Fortunato, un’azienda non fondata da lui ma che insieme alla scaltra e spietata sorella Madeline (Mary McDonnell) è stato in grado di usurpare, per poi trasformare in una macchina da soldi e potere. Come? Soprattutto grazie all’invenzione di un farmaco antidolorifico diventato presto un enorme successo commerciale, a fronte però di un tragico inganno: è infatti una sostanza che non dovrebbe dare dipendenza, e che invece la dà eccome.
Dopo il successo, Roderick ha dato alla luce sei figli da cinque donne diverse, e proprio la morte rapida e improvvisa di questi figli, uno dopo l’altro, nei giorni appena precedenti il racconto a Dupin, ha spinto il protagonista a raccontare la sua storia, svelando segreti inconfessabili.
Se leggendo delle avventure farmaceutiche degli Usher avete pensato a Dopesick o Painkiller, siete in buona compagnia. Anzi, questo è uno dei motivi che mi ha fatto storcere il naso nei primi due episodi, in cui l’orrore è ancora relativamente poco e si prepara il terreno per i sanguinolenti risvolti successivi.
Il fatto che House of Usher (d’ora in poi lo abbrevio così) si inventasse una vicenda così simile a una storia vera su cui sono state realizzate da pochissimo ben due serie tv, la rendeva inevitabilmente un po’ fuori tempo massimo.
Fortunatamente, poi si passa a raccontare le morti dei figli di Roderick, dedicando a ognuno una puntata che descrive la vita, le ossessioni, le trasgressioni del personaggio, fino al suo spettacolare decesso, e qui ci si diverte molto di più, e si vede davvero all’opera la creatività di Flanagan, che in una struttura narrativa tutto sommato molto semplice trova il modo di mescolare inquietudini, follie, giochi cromatici, riferimenti letterari e molto altro, in un tutto coerente e facile da seguire.
Con un gusto splatter non privo di una certa, feroce ironia, House of Usher a tratti sembra più Final Destination che non un fine adattamento di Poe, e questa mescolanza di anime e di stili, nonostante qualche inciampo (mi riferisco soprattutto a numerosi jump scare di cui si sarebbe anche potuto fare a meno), dà alla miniserie una personalità che la riscatta da quell’inizio stranamente simile a prodotti di tutt’altro genere.
Dove House of Usher invece fatica (o meglio, continua a faticare) è in un paio di scelte di fondo, sia narrative che filosofiche, che non mi sembrano reggere il livello di tanti altri piccoli dettagli.
Prima di tutto, c’è la scelta di risolvere la vicenda con un banale patto col diavolo. Quello che infatti scopriamo, dopo aver visto la morte dei giovani Usher sempre accompagnata dalla presenza di Verna, una donna misteriosa interpretata da Carla Gugino, è che Roderick e Madeline, all’inizio della loro carriera, avevano stipulato un patto per ottenere fama e fortuna, al prezzo della fine contemporanea della loro dinastia: in pratica, firmando, Roderick aveva accettato che i suoi eventuali figli morissero con lui, e nonostante questo ne aveva fatti ben sei.
La scelta di mettere in scena un patto col diavolo, per quanto coerente con il tema dell’avidità e del potere di cui vedremo meglio fra poco, doveva essere sembrata banalotta anche a Mike Flanagan, che mette in bocca a Carla Gugino una specie di aperta negazione di quell’accusa: vediamo infatti Verna impegnata nel tentativo di convincere personaggi e spettatori che lei non è il diavolo.
Però Mike, scusa se mi permetto eh: se sembra un patto col diavolo, ha tutte le premesse di un patto col diavolo, e le conseguenze di un patto col diavolo, forse è un patto col diavolo, e devi accettare che in questo caso la coerenza con i tuoi desideri artistici non era compatibile con una grande originalità.
Fa niente, non prenderti male.
Stesso problema riguarda l’impianto fislosofico di fondo. House of Usher è una saga sul potere, sull’avidità, sul denaro, e a conti fatti sul capitalismo, inteso per l’appunto come manifestazione concreta ed economica della brama di potere e gloria.
Tutte le decisioni prese da Roderick (compresa la prima, anche se la vediamo alla fine) vanno nella direzione del conseguimento e del mantenimento della ricchezza, a cui tutto è sacrificabile, dalla vita di milioni di persone spezzate dal farmaco ingannevole, a quella dei suoi stessi figli.
Il parallelismo con Succession viene abbastanza facile, anche se in questo caso tutti gli Usher sono esseri abietti che, se anche non sembrano cattivi, è solo perché stanno aspettando il momento giusto per mostrare il loro egoismo e malvagità (in maniera diversa dalle creature fragili e contraddittorie di Succession).
Flanagan trova molti modi per descrivere questo approccio cinico e, infine, autolesionista alla vita. Che si tratti del monologo dei limoni del terzo episodio (in cui Roderick mostra un approccio mentale capace di trasformare letteralmente qualunque cosa, compresi appunto dei limoni, in uno strumento di controllo delle masse e accumulazione di denaro), o della pioggia metaforica di corpi con cui il protagonista contempla la montagna di cadaveri su cui ha costruito selvaggiamente il suo impero, l’autore costruisce numerose visioni inquietanti che rimandano tutte a un’idea di colpa e castigo, di destino oscuro generato dalle precise scelte degli esseri umani, su cui cala inevitabilmente una cappa di pessimismo e disprezzo per la quale Poe avrebbe gli occhi a cuore.
Tutto giusto e tutto bello, solo non particolarmente originale (e tre). È qui che fatico a ritrovarmi in diversi commenti letti online, nei quali House of Usher sembra un’improvvisa e definitiva pietra tombale sul capitalismo e le sue storture. Ecco, secondo me possiamo volare più bassi: non è certo la prima volta che vediamo dei ricchi malvagi interessati solo al profitto, e in questo specifico senso House of Usher non aggiunge moltissimo a discorsi che abbiamo già sentito.
Il fatto poi che alcuni tropes letterari come il patto col diavolo, e alcuni riferimenti più o meno inconsapevoli a recenti prodotti seriali (anche Dopesick racconta di una terribile famiglia di affaristi senza scrupoli, con la non piccola differenza che è una storia vera), non contribuiscano al senso di originalità generale, fa sì che si possa serenamente omaggiare le molte qualità di House of Usher, senza per questo appuntarle obbligatoriamente anche la medaglietta di serie più innovativa della storia.
Per me, la miglior miniserie di Flanagan resta Midnight Mass, che avevo trovato più “nuova” e provocatoria, anche se magari toccava semplicemente temi e sottogeneri che mi piacevano di più.
Resta comunque il fatto che House of Usher è una miniserie solida, costruita con perizia, coerente al suo interno, e capace di interessare a più livelli diversi, anche in base alla vostra conoscenza letteraria di Edgar Allan Poe.
Non serve scomodare giudizi apocalittici per parlarne bene, e rappresenta un buon saluto di Mike Flanagan a Netflix, appena prima di imbarcarsi in un’impresa ancora più complicata, perché al giorno d’oggi c’è sicuramente più pubblico seriale che ha letto La Torre Nera, di quello che conosce a menafito Poe.
In bocca al lupo Mike, aspettiamo fiduciosi.
Perché seguire The Fall of The House of Usher: per l’abilità di Mike Flanagan di tenere dentro tanti elementi in una confezione sempre chiara.
Perché mollare The Fall of The House of Usher: alla fine dei conti è meno originale di quanto vorrebbe.
PS Non so perché ma nello scrivere la recensione non sono riuscito a trovare un punto per dire che fra i protagonisti c’è Mark Hamill nei panni dell’avvocato sinistro e silenzioso. In pratica un Luke Skywalker che è finito nel Lato Oscuro con tutte le scarpe.