Gen V su Prime Video: tutto giusto lo spinoff di The Boys di Diego Castelli
Gen V racconta di ragazzi con poteri nel mondo di The Boys, quindi pressione sociale, social mangiatutto, e poco spazio per il Bene
In un momento molto particolare del mondo delle serie tv, con l’onda lunga di due scioperi a loro modo epocali che minacciano (anzi, promettono) di azzoppare la stagione televisiva, le poche serie rimaste funzionano da oasi nel deserto, soprattutto se sono ben fatte e lasciano l’idea di qualcosa di grosso.
Come dire: ok c’è poco da guardare, ma almeno c’è quella serie da attendere ogni settimana per un paio di mesi.
Gen V, lo spinoff di The Boys disponibile su Prime Video (al momento di questa recensione abbiamo visto tre episodi) promette di essere esattamente questo: una serie vera, corposa, di quelle a lungo attese, su cui discutere settimana dopo settimana.
E no, non era affatto un compito semplice, considerando la fama dell’originale e il peso delle aspettative che, giocoforza, gravavano su una specie di versione teen del sarcastico e provocatorio show di Erik Kripke, tratto dal fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson.
Gen V è in realtà il secondo spinoff di The Boys, ma il primo che, per certi versi, ci viene da considerare “vero” (perché l’altro, seppur meritevole, è l’animazione di The Boys Presents: Diabolical).
La serie è creata da Craig Rosenberg, Evan Goldberg e, di nuovo, Eric Kripke, ed è tratta da “We Gotta Go Now”, che è uno specifico arco narrativo all’interno del fumetto di The Boys.
Arco che non ho letto quindi non chiedetemi confronti, al massimo ditemelo voi se è fedele, se no, e insomma tutte quelle cose su cui solitamente ci si accapiglia parlando di adattamenti.
Nel caso della serie tv, Gen V è ambientata nello stesso mondo di The Boys, e anzi si inserisce proprio dopo la terza stagione, come se, almeno cronologicamente, fosse di fatto la quarta stagione di The Boys.
Il fulcro narrativo, però, non sono né i Seven (i supereroi più famosi del mondo, accuratamente coccolati e manipolati, nella loro immagine pubblica, dalla Vought International), né gli adorabili sfigati senza poteri che combattono la Vought fin dalla prima stagione.
Qui siamo invece in un college, la Godolkin University School of Crimefighting, il cui scopo è selezionare e addestrare giovani ragazzi con poteri speciali (ottenuti, ricordiamolo, tramite la somministrazione di un apposito siero), per decidere chi diventerà effettivamente un supereroe nel senso classico del termine, e chi invece sarà buono solo per fare la piccola o grande star fra tv e social.
All’interno di un cast inevitabilmente corale c’è comunque una protagonista ideale, Marie (Jaz Sinclair), che da anni sogna di dare una svolta alla sua vita e di sanare certe antiche ferite grazie al suo potere molto particolare, un’inquietante capacità di manipolazione del sangue.
È attraverso gli occhi di Marie che entriamo alla Godolkin scoprendo che anche lì, come nel mondo degli adulti, i superpoteri sono soprattutto moneta di scambio per uno status sociale sempre precario, simboleggiato da una vera e propria classifica degli studenti migliori, capeggiata a inizio pilot da Golden Boy (Patrick Schwarzenegger), un ragazzo in grado di darsi fuoco per diventare una potente palla di fiamme.
Naturalmente, basta poco perché tutto vada a ramengo: alla Godolkin nascondono dei segreti, come sempre accade quando c’è di mezzo la Vought, e Marie e i suoi nuovi compagni di avventure e di sfighe dovranno decidere se badare ai propri interessi e la propria carriera, oppure andare a fondo di una vicenda che nel giro di un episodio conta già morti, feriti e spettacolari suicidi.
Ci sono alcuni elementi che Gen V conserva da The Boys, altri che la allontanano dall’originale, e altri ancora che Gen V definisce meglio, o per lo meno da punti di vista leggermente diversi.
A non cambiare è sicuramente il piglio provocatorio, sarcastico, orgogliosamente adulto con cui questo mondo tratta il supereroismo. Nello specifico, pur senza fare spoiler, ci sono almeno due scene nel pilot (in realtà sono di più) che potevano stare solo in The Boys o in una sua espansione, scene quasi grottesche di smaccata violenza e/o iperbolica sessualità. Scene da applauso immediato e da popcorn da lanciare in bocca mentre ci si mette comodi sulla poltrona.
Allo stesso tempo, Gen V appare quasi da subito come una serie meno ironica: c’è un numero inferiore di scene, immagini e porzioni di dialogo pensati per strappare un sorriso, magari uno di quei sorrisi metatestuali di chi la sa lunga e si diverte proprio nel vedere il ribaltamento sistematico di un certo immaginario, in favore di una sua versione pazzoide ma, per certi versi, pure realistica.
In Gen V si ride di meno, un po’ perché certe beghe e metafore adolescenziali meritano più serietà (lo vedremo fra poco), e in parte perché il fuoco si sposta su una trama che appare meno lineare di quella di The Boys e poggia anche sull’esistenza di misteri da risolvere.
C’è una complicazione, in Gen V, che riverbera su tutta quanta la struttura. Mentre in The Boys avevamo dei supereroi corrotti e dei “buoni” impegnati a combattere loro e ciò che realmente rappresentano (con l’unica eccezione di Starlight, sospesa fra i due mondi), in Gen V i protagonisti buoni sono gli stessi supereroi o aspiranti tali, dei ragazzi giovani che, per definizione, vivono una vita di ambiguità, e che si ritrovano invischiati nell’ambiguità suprema, cioè il dubbio che la vita che stanno scegliendo, e a cui molti di loro aspiravano fin da piccoli, sia in realtà molto meno scintillante di quanto immaginassero.
Non due fazioni, dunque, almeno non subito, ma un unico gruppo interno alla Vought in cui nascono tensioni e frizioni che non possono essere risolte semplicemente con un “ah ok, voi siete cattivi, noi no, meniamoci”.
Questa stessa, rinnovata complessità è quella che permette di dare una nuova sfumatura a un tema che conoscevamo già in The Boys, cioè quello del rapporto dei supereroi con la fama.
Una delle migliori idee dell’originale è quella di mostrare un mondo in cui nemmeno i super, che per definizione dovrebbero stare “sopra” al resto della popolazione, sono immuni da quel misto di lusinghe e manette messo in atto dalle grandi corporazioni: essere super, in The Boys, non significa più di tanto occuparsi del bene della gente, ma essere famosi, avere tanti follower, incarnare un certo tipo di narrazione pubblica accuratamente pianificata per massimizzare la concentrazione di denaro e potere in poche mani.
Esattamente quello che accade nella realtà, ma se fai vedere che può succedere anche Superman (perché Homelander quello dovrebbe essere) fa più impressione.
Gen V mantiene vivo questo ragionamento, ma lo declina nel mondo dei giovani, mettendo in scena quello che potremmo definire un secondo tradimento.
Dopo aver tradito l’idea dei supereroi, questo mondo tradisce anche quella dei giovani che in futuro saranno supereroi. Qui non c’è lo zio Ben che, di fronte a un nipote appena diventato Uomo Ragno, gli dice “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. C’è invece una potente macchina da soldi che prende i ragazzini e li incolonna fin da ragazzi su una strada di superficialità e consumismo, in cui i poteri smettono di essere la chiave per elevarsi dalla massa, e diventano solo uno degli strumenti con cui divertirla e ottenerne il favore.
Non è allora un caso se, in Gen V ben più che in The Boys, l’uso dei poteri e l’addestramento da super rivelano in realtà molteplici dinamiche tossiche. Abbiamo quindi dei genitori che, come i classici padri al campetto che si incazzano con l’arbitro in una partita fra giocatori di sette anni, pressano i figli affinché loro riescano dove loro hanno fallito. Ma soprattutto, c’è questa ottima idea legata al “prezzo” da pagare per l’uso dei poteri.
La protagonista Marie deve fisicamente tagliarsi per usare il suo potere. Emma (Lizze Broadway) deve vomitare e poi mangiare in una dinamica da disordine alimentare. Jordan (London Thor e Derek Luh) è un gender-shifter che ha poteri diversi a seconda se diventa uomo o donna, ma quello che ottiene sono soprattutto problemi col padre bigotto,
Ecco che, ancora una volta, il mondo di The Boys esce dalla stanza della realtà solo per rientare dalla finestra, offrendoci un armamentario simbolico nemmeno troppo sottile, ma sicuramente molto potente, per mettere in scena la versione oscura, sbagliata, difettosa di quel meraviglioso mondo supereroistico con cui ci balocchiamo fin da ragazzini.
Come a dire che non si smette di essere umani, no matter how hard you punch.
A conti fatti, i primi tre episodi di Gen V colgono nel segno. Trattengono tutto ciò che di buono e di dirompente c’era in The Boys, declinandolo però secondo la propria identità, trovando sfumature nuove ma senza mai farci perdere la netta sensazione di essere ancora “in quel posto lì”.
Soprattutto, sono tre episodi incalzanti, ben scritti, pieni di contenuto, che si guardano con estrema facilità, rimanendo con la voglia di vedere subito il quarto.
Anche in questo caso, non c’era modo migliore per essere figli di The Boys.
Perché seguire Gen V: tutto o quasi il buono di The Boys, ma con una sua identità precisa.
Perché mollare Gen V: di The Boys gli manca solo una certa, gustosa ironia su cui l’originale insisteva di più.