The Lost Flowers of Alice Hart – Su Prime Video una miniserie importante… con degli spigoli di Diego Castelli
The Lost Flowers of Alice Hart tratta un tema complesso e necessario, con stile preciso. E anche con qualche lungaggine di troppo.
Devo ringraziare gli ascoltatori (anzi, precisiamo, le ascoltatrici) del nostro podcast e di TikTok, per avermi convinto a terminare The Lost Flowers of Alice Hart (in italiano “Ascolta i fiori dimenticati”), miniserie di Prime Video che, pur con i suoi pregi, usciva un po’ troppo dal mio gusto e dai miei ritmi, e che avevo abbandonato dopo quattro episodi.
Conscio del fatto che, a conti fatti, erano solo sette puntate, e che quindi ero già oltre la metà del guado, ho ripreso in mano la serie e l’ho terminata, trovando effettivamente un certo gusto nel chiudere il cerchio di una storia che, pur con qualche spigolosità, trova modo di diventare rilevante e di toccare corde profonde.
E quindi eccoci qua, con tutte le cose fatte a modino.
La serie è tratta dal libro omonimo dell’australiana Holly Ringland, è creata da Sarah Lambert, interamente diretta da Glendyn Ivin, e interpretata fra gli altri da Alycia Jasmin Debnam-Carey (The 100, Fear The Walking Dead) e dalla mitica Sigourney Weaver, che a fronte di un’iconica carriera cinematografica si è sempre vista poco nelle serie tv (con un paio di eccezioni fra cui The Defenders).
La storia è tutta al femminile, e segue la protagonista Alice prima come bambina e poi come giovane donna.
Da giovanissima, Alice vive in campagna con mamma e papà, una vita apparentemente bucolica che nasconde un lato oscuro: Clem, il padre, è un uomo violento e pericoloso, che sfoga sulle donne della famiglia frustrazioni e traumi.
Quando i genitori muoiono improvvisamente in un incidente di cui Alice si attribuisce la colpa, la bambina finisce a vivere con la nonna paterna, che gestisce un vivavio che in realtà è anche un rifugio per donne vittime di abusi.
Sembrerebbe una buona soluzione, ma anche la nuova casa nasconde dolorosi segreti, e il futuro di Alice non è ancora al riparo dai pericoli.
I problemi che ho avuto con The Lost Flowers of Alice Hart attengono solo in parte con “errori” della serie, e piuttosto con una frizione fra il mio gusto e il suo consapevolissimo stile.
La serie adotta un approccio abbastanza particolare alla sua storia. Poteva trattarla come una sorta di thriller in cui gli elementi oscuri dei personaggi diventano materia di indagine poliziesca (e qualche twist assimilabile al genere c’è pure). Oppure poteva affrontarla dal punto di vista clinico, analizzando in termini rigorosi e quasi accademici le problematiche psicologiche dei vari personaggi.
Invece, in termini di scrittura, atmosfera, e sopratutto visivo e sonoro, The Lost Flowers of Alice Hart costruisce un racconto dai toni smaccamenti poetici, in cui il dramma familiare e femminile si snoda con lentezza, lasciando spazio per ampie riflessioni silenziose, in cui la quiete del paesaggio sembra diventare un sedativo per le passioni delle protagoniste, e insieme uno sfondo amaramente ironico per i soprusi che subiscono.
I fiori del titolo, che ovviamente fanno riferimento al vivaio di June (la nonna) e in generale alla passione della famiglia per petali e steli, sembrano solo un contorno alla vicenda, ma in realtà ne diventano parte integrante non solo come effettivo strumento di progressione della storia, ma anche come metafora della condizione delle protagoniste: la serie esplicita l’uso del termine anche in riferimento alle donne accolte/protette da June, in un parallelismo che riguarda la fragilità, ma anche la necessità di protezione e l’intimo valore di ogni pianta rispetto alle altre, ognuna portatrice di un preciso significato comunicativo.
In termini puramente ritmici, tutta questa impostazione di traduce in una serie dalle cadenze estremamente compassate, e segnata (questo sì mi pare un errore) da alcune deviazioni più o meno marcate che diluiscono la vicenda in modo non sempre efficace.
Per dirla più banale, è una serie che sa essere faticosa, non perché sia complicata o eccessivamente cruda, ma semplicemente perché fa giri piuttosto ampi prima di arrivare al punto.
Una scelta, giova ribadirlo, evidentemente consapevole, che può essere ostica almeno finché non se ne coglie il senso più generale.
È soprattutto negli ultimi due episodi che questa comprensione più ampia trova effettivamente il modo di accogliere con forza anche chi, come me, faticava a stare dietro al ritmo lento dei primi episodi.
Senza fare troppi spoiler, è particolarmente apprezzabile l’idea di raccontare le donne della serie non come “vittime e basta”, poveri fiorellini (appunto) da custodire e proteggere sotto una teca. Sono invece persone a trecentosessanta gradi, suscettibili di prendere decisioni sbagliate, capaci di sentimenti contrastanti e non sempre concilianti.
Donne vere insomma, come vere diventano le loro storie nella descrizione di abusi che non occupano lo spazio di un giorno o una settimana, a beneficio di indagine cotta e mangiata, ma intere vite, come quella di Alice, che nel corso della serie cresce al punto da dover impiegare due attrici diverse, ma resta legata a dinamiche tossiche la cui eliminazione non è questione di due parole e una pacca sulle spalle.
The Lost Flowers of Alice Hart affronta il tema della violenza sulle donne, non certo il più originale del mondo, ma lo fa con una prospettiva meno battuta di altre volte.
L’idea, come accennato, non è quella di dare una descrizione clinica del fenomeno, provando a capire (e spiegare) nel dettaglio le dinamiche psicologiche che portano allo scoppio della violenza e, in seguito, alla difficoltà per molte donne di uscire da una dinamica di sottomissione e codipendenza che di trasforma in circolo vizioso dalle conseguenze potenzialmente tragiche.
Ma anche se non ci “spiega” quella dinamiche, riesce comunque a mostrarcele, a volte facendoci scontrare con scelte che ci paiono illogiche e per questo frustranti, ma non per questo meno vere e dunque bisognose di empatia.
Il risultato vero, tornando alla prospettiva del ritmo di cui si diceva prima, è quello di una serie che procede per strappi e rallentamenti, ma in cui quegli strappi sanno essere così forti, così ficcanti, che i tempi “morti” (per usare un’espressione forse ingenerosa, ma per capirci) diventano spazi di quiete che però non sono mai liberi dall’inquietudine, dal segreto, dai lividi occultati e dalle domande senza risposta.
Per tanti motivi, The Lost Flowers of Alice Hart non è una serie semplice, eppure riesce a trasmetterci la complessità di situazioni che spesso, nella voracità mediatica della cronaca nera, diamo per scontate, giudichiamo in modo netto, finendo col farci opinioni semplificate.
Di semplice qui non c’è niente, perché come viene detto a un certo punto (e sto parafrasando), la violenza e la sopraffazione non sono sempre attribuibili a oscuri malvagi da fumetto, ma a padri, figli, fratelli, mariti, in un groviglio di sentimenti contrastanti che è difficile comprendere appieno a meno di non esserci dentro.
Arrivando alla fine della miniserie, più che di essersi “divertiti” (nel senso più ampio del termine) si ha la sensazione di aver imparato qualcosa, di aver colto almeno una parte di un senso profondo che non sempre riusciamo ad estrapolare dalla fredda cronaca o da poche righe su un giornale. Un senso che probabilmente mi sarei perso se avessi effettivamente smesso di seguirla a metà.
Se decidete di seguirla, dunque, armatevi di pazienza e impegno. Vi serviranno, ma alla fine ne sarà valsa la pena.
Perché seguire The Lost Flowers of Alice Hart: parla di un tema importante con uno stile tutto suo, che alla fine si rivela capace di trasmettere concetti non scontati.
Perché mollare The Lost Flowers of Alice Hart: è una serie lenta, riflessiva e fondamentalmente triste. Bisogna avere il mood giusto.