Painkiller – Su Netflix il clone di Dopesick di Diego Castelli
Painkiller racconta una storia interessante e meritevole, che però abbiamo già visto meno di due anni fa
Che il cinema e le serie abbiano spesso riciclato, rimasticato e rispolverato storie già utilizzate in passato, è una verità su cui non è nemmeno il caso di dilungarsi, specie negli ultimi anni in cui è pure un tema molto dibattuto.
E la cosa vale sia per le storie di fantasia (quanti film su Robin Hood? Quante genesi di Batman, o di King Kong?) sia per le storie vere (i primi film sul Titanic risalgono al muto).
Se poi guardassimo al teatro, beh, diciamo che riproporre le stesse storie più volte, in contesti diversi, non è certo un tabù.
Poi certo, c’è modo e modo di fare le cose, e il fattore tempo gioca un ruolo importante: se riproponi la stessa storia a venti, trenta o quarant’anni dalla sua ultima messa in scena, non si scompone nessuno. Diverso il caso di una vicinanza temporale più vistosa, magari su due piattaforme particolarmente famose, che da qualche anno gareggiano per la supremazia nel mondo seriale.
Era accaduto recentemente con due serie di cui abbiamo parlato solo nel podcast, Candy di Hulu e Love and Death di HBO Max, incentrate sulla stessa storia di omicidio e debuttate a un anno di distanza l’una dall’altra.
Nel caso di oggi gli anni di distanza sono (quasi) due, ma la vicinanza è ancora più vistosa per il pubblico italiano, che può effettivamente vedere entrambe le miniserie: parliamo di Painkiller di Netflix, debuttata lo scorso 10 agosto, creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster e basata su un articolo di Patrick Radden Keefe, che riprende la stessa trama di Dopesick, uscita nell’autunno del 2021 e attualmente disponibile su Disney+.
La storia è quella della dipendenza da oppiodi che divenne una vera e propria emergenza negli Stati Uniti degli anni Novanta. Un’emergenza sanitaria che pareva generalizzata e di difficile definizione, ma che aveva dei responsabili molto precisi, ovvero la Purdue Pharma di Richard Sackler, che aveva prodotto un nuovo farmaco antidolorifico molto potente (l’OxyContin) nascondendone la pericolosità in termini di capacità di indurre dipendenza.
Le aggressive e spietate campagne di marketing della Purdue, che mandava i suoi agenti porta a porta a convincere i medici di base a prescrivere l’OxyContin in quantità sempre più elevate, portò moltissimi, inconsapevoli pazienti a sviluppare una dipendenza da antidolorifici che ha causato centinaia di migliaia di morti e distrutto innumerevoli famiglie.
Una storia vera in cui i “cattivi” sono così facilmente identificabili (e appartenenti a una speciale razza di cattivi molto odiati, cioè i capitalisti avidi, senza scrupoli e senza empatia) da diventare un boccone ghiottissimo per chi volesse raccontare una storia meritevole di essere ascoltata, ma anche capace di scatenare forti emozioni.
Non è dunque un caso, forse, che in neanche due anni ne abbiamo visto due diverse versioni, per quanto la cosa, comunque, possa suonare stravagante.
A questo punto bisognerebbe dividere la recensione in due, parlando di Painkiller in maniera diversa a seconda che chi legge abbia visto o meno Dopesick.
Una cosa che normalmente non faremmo, ma la vicinanza dei due prodotti, la loro contemporanea disponibilità in Italia, e il fatto che si tratti di miniserie di durata molto simile, rende inevitabile immaginare che una certa quota di chi legge questo articolo abbia visto la prima.
Questo non significa che il giudizio su Painkiller sia radicalmente diverso in base alla conoscenza o meno di Dopesick, ma la presenza o meno di un effetto dejà vu nella mente dello spettatore ha un’influenza inevitabile sulla percezione della serie più recente.
Se non avete visto Dopesick
Come detto, Painkiller racconta la storia della Purdue Pharma, dell’Oxycontin e delle conseguenze terribili dei magheggi dell’azienda.
Il racconto è necessariamente corale, perché tiene insieme varie sottotrame: una per le dinamiche interne della casa farmaceutica; una relativa a una giovane ragazza assoldata come venditrice; un’altra ancora dedicata a un padre di famiglia che, a seguito di un incidente sul lavoro, finisce nel gorgo della dipendenza, e via dicendo.
Se giudicassimo dalla fama degli interpreti, potremmo dire che i protagonisti sono due: da un parte Uzo Aduba (la Crazy Eyes di Orange is the New Black), che interpreta Edie Flowers, una donna che ha indagato sulla questione dell’OxyContin e nel primo episodio inizia a raccontare la vicenda al passato; dall’altra Matthew Broderick, a cui viene affidata la parte di Richard Sackler, un uomo che, per sua stessa ammissione, vuole solo “fare soldi e vincere”.
A questi, per affetto personale, aggiungiamo Clark Gregg (il Coulson del Marvel Cinematic Universe), che interpreta il fondatore dell’azienda, Arthur Sackler, che appare a Richard come una sorta di fantasma/coscienza malvagia.
Painkiller funziona, nel senso più generale del termine. Ha un approccio vagamente documentaristico, con il racconto di Edie che diventa simile alle classiche interviste da documentario, e si concentra in maniera particolare sull’indagine che ha portato alla scoperta degli illeciti della Purdue, che era particolarmente abile a muoversi in certe zone grigie della legge, spingendo il suo pericoloso prodotto avendo però cura di ammantarlo di una costante aura di legittimità, al punto che l’emergenza e il danno divennero evidenti quando ormai erano già enormi.
Funziona perché il gioco buoni-cattivi, di per sé molto facile, è comunque sostenuto da una ricostruzione giornalisticamente interessante, e da una buona alternanza di registri, con la cronaca che si impenna nel dramma e poi sfuma nel senso di rivincita (comunque non pienissimo perché, spoiler, non si è mai riusciti a fargliele pagare proprio tutte).
Se quindi dovessi esprimere sull’opportunità o meno di guardare la miniserie, senza sapere niente di questa faccenda, vi direi serenamente di sì: magari Painkiller non è un capolavoro eccezionale, ma ne vale comunque la pena.
Se già conoscete Dopesick
Se invece avete già visto, e magari amato, la miniserie di Hulu, beh, qui la faccenda diventa più spinosa.
A volerla dire un po’ piatta, Painkiller è proprio un clone di Dopesick, con un approccio molto simile, la stessa impostazione corale, un’alternanza di registri paragonabile, e ovviamente… beh, la stessa storia.
Naturalmente delle differenze si trovano, a cercarle: l’utilizzo del “fantasma” del Sackler originale; un maggior focus sull’elemento investigativo rispetto a quello drammatico (anche se parliamo davvero di sfumature); l’equilibrio diverso fra i personaggi, come per esempio il peso dato dalla prima serie al ruolo di un medico pentito (interpretato da Michael Keaton) di cui non troviamo un diretto corrispettivo in Painkiller.
Allo stesso tempo, però, ci sono caratteri presenti in entrambe le miniserie, magari giusto ribaltati in termini di genere: penso alla venditrice prima entusiasta e poi rammaricata (era un uomo in Dopesick), ma anche alla storia strappalacrime, che su Hulu era incentrata su Kaitlyn Dever (giustamente candidata sia ai Golden Globes sia agli Emmy), mentre qui gira intorno a Taylor Kitsch.
E naturalmente vale anche per Uzo Aduba, preceduto nel ruolo investigativo da Peter Sarsgaard.
Insomma, comunque la vogliate rigirare, l’effetto dejà vu è forte e probabilmente inevitabile: è quella storia lì, neanche due anni dopo.
Chi vince?
Resta dunque da chiedersi quale sia la migliore fra le due, con Dopesick che parte avvantaggiata dal semplice fatto di essere arrivata per prima (nella percezione di chi le ha viste in ordine cronologico, naturalmente).
Per quanto mi riguarda, però, non è solo questione di partenza anticipata. Per quanto nessuna delle due si inventi niente di clamoroso in termini di scelte narrative o visive, a far vincere Dopesick è proprio il lavoro fatto con gli attori.
La cosa vale in positivo, con le straordinarie interpretazioni di Michael Keaton e Kaitlyn Dever (non me ne voglia Taylor Kitsch, ma Dever gli mangia in testa quando si tratta di scatenarci emozioni primitive nello stomaco), ma vale anche in negativo: il Richard Sackler di Matthew Broderick, forse anche a causa di un tentativo più vistoso di farlo assomigliare esteticamente all’originale, sembra un po’ una macchietta, o un cattivo da fumetto. Michael Stuhlbarg, che interpretava Sackler in Dopesick, ne dava una versione magari meno immediatamente impattante, ma comunque più realistica e umana.
(Se andate a cercare le interviste del vero Richard Sackler su internet, troverete un uomo che, all’apparenza, è molto più ordinario di quanto ci mostri Painkiller, cosa che, forse, è ancora più inquietante).
Proprio guardando a come attori e attrici di Dopesick sono stati maggiormente in grado di coltivare e raccogliere le nostre emozioni, facendoci sentire tutto il peso delle scelte sbagliate, va infine notata la piccola caduta di stile di Netflix, che anticipa ogni episodio con un disclaimer letto dalle vere famiglie di alcuni ragazzi morti per colpa dell’Oxycontin.
Senza voler mancare di rispetto al dolore di queste persone, naturalmente, l’insistenza del giochino lacrimevole messo in campo da Netflix sembra quasi un’ammissione: setto il mood della puntata usando le vere vittime, che rimarranno fino alla fine dell’episodio le figure più emozionanti.
Stiamo certamente parlando di sfumature, ed entrambe le miniserie riescono a ricostruire una brutta storia rimanendo costantemente interessanti, ben ritmate, messe in scena con criterio.
Se però mi chiedete quale consigliare più dell’altro, allora Dopesick mi sembra effettivamente avanti.
Che poi, a dirla proprio tutta, non mi è dispiaciuto vederle entrambe: in questo specifico caso, il gioco del confronto riesce a essere divertente di per sé.
Perché seguire Painkiller: È una miniserie dritta ed efficace su una storia che è giusto conoscere.
Perché mollare Painkiller: È la stessa identica storia di Dopesick, che però era migliore.