The Witcher 3 Prima Parte – Caro Henry, abbiamo capito di Diego Castelli
L’ultima stagione di The Witcher con Henry Cavill parte all’insegna della noia, della confusione, dell’inutilità
C’È UN UNICO SPOILER CHE COMUNQUE NON RIGUARDA LA TRAMA GENERALE
Nella recensione alla seconda stagione di The Witcher (che trovate qui), a un certo punto facevo una mossa poco elegante, auto-citando una mia recensione precedente.
Se me lo permettete, come se fosse ormai una tradizione, vorrei farlo di nuovo, incollando qui di seguito quelle che erano le mie speranze per la terza stagione, dopo che della seconda avevo apprezzato alcuni miglioramenti:
“Se The Witcher è riuscita ad alzare il suo livello in termini di messa in scena, di linearità della trama e di approfondimento dei personaggi, ora non le resta che “esplodere” sul serio. Per farlo serve una maggiore precisione nei pesi compositivi, con un riconoscimento più furbo di cosa interessa davvero, e la capacità di gestire in maniera più salda l’epica potenziale di certe situazioni, che in alcuni casi è apparsa troppo trattenuta.”
E poi scrivevo anche: “Se sarà in grado di farlo, The Witcher diventerà, nel suo modo particolare, il fantasy di riferimento di questi anni, a meno che Prime Video con Il Signore degli Anelli non arrivi a fare la voce grossa. […] L’importante, comunque, è che resti tamarra.”
Ebbene, a distanza di un anno e mezzo la terza stagione di The Witcher è effettivamente arrivata.
Non c’è maggiore precisione nei pesi compositivi, non sa riconoscere affatto cosa piace alla gente, con l’epica fa acqua da tutte le parti, è sempre meno tamarra, Henry Cavill ha mollato la serie e Rings of Power di Prime Video ha fatto sostanzialmente schifo.
Beh, tutto bene, no?
Partiamo proprio da lui, da Henry Cavill, uno degli attori più amati di Hollywood, il nerd gentile con i muscoli d’acciaio, che ogni volta che si impegna in un progetto sembra farlo per reale passione personale, spesso pregressa, come appunto nel caso della saga di The Witcher, che Cavill amava per averla conosciuta con i videogiochi e poi recuperata anche nei libri.
La passione e il carisma di Henry Cavill avevano svolto un ruolo importante non solo nella costruzione visiva, atletica, sonora della versione live action di Geralt di Rivia, ma anche nella promozione stessa della serie, nella creazione di un’atmosfera di felice nerdismo che aveva permesso di godersi lo show di Netflix nonostante alcuni suoi inciampi e difficoltà produttive.
Proprio per questo, l’addio di Cavill a The Witcher è stato un colpo forte, una specie di rottura dell’illusione, come se senza di lui (o meglio, con Cavill in partenza) venisse meno anche quell’entusiasmo fanciullesco con cui accettavamo i difetti di una serie un po’ raffazzonata, ma anche appassionata e onesta.
Per diverso tempo, e in parte tuttora, i motivi dell’addio sono rimasti misteriosi, anche se lentamente sono emersi disaccordi legati alla direzione presa dalla serie, alle scelte artistiche, insomma Cavill e Netflix non si trovavano più d’accordo su ciò che The Witcher dovesse essere e diventare, e per un purista come il buon Henry, queste divergenze non potevano che avere conseguenze precise.
Ed è proprio guardando la prima parte della terza stagione di The Witcher che ci sembra più facile capire i motivi di quelle divergenze di opinioni.
Questi cinque episodi, per dirla semplice, raccontano della protezione che Geralt e Yennefer cercano di garantire a Ciri, la ragazzina dai grandi poteri e dal destino pericoloso, che è oggetto di ricerca da praticamente tutte le forze politico-militari della serie: i regni del Nord, l’Impero di Nilfgaard, gli elfi, tutti accomunati dal desiderio di trovare Ciri e farle cose poco piacevoli, ognuno secondo i propri interessi.
A partire da quella necessità di protezione, che fa iniziare la stagione con i tre personaggi in fuga, si passa al desiderio di contrattaccare, alla necessità cioè di trasformare Ciri in un’esca con cui far venire allo scoperto tutti i cattivi, a partire dal misterioso mandante che si nasconde dietro il perfido mago Rience.
(Alla fine dei cinque episodi ce lo dicono chi è, ma non lo dirò qui, perché credo si possa fare una recensione senza spoiler)
Fin qui, tutto più o meno chiaro. Il problema è il “come”.
Per mettere in scena questa storia, gli autori decidono di trasformare The Witcher in una specie di Game of Thrones wannabe, in cui le scene di dialogo, intrigo politico, sotterfugio e inganni vari superano di gran lunga tutta la componente avventurosa e d’azione, con pochissime scene di combattimento (ben girate, per fortuna), e un Geralt che compare fisicamente poco, per una serie che porta il suo nome.
Solo che se tu decidi di fare un Trono di Spade, poi devi esserne capace. Così non è, e le lunghe, estenuanti sessioni di gioco politico sembrano spettacoli teatrali di cosplayer, in cui del ritmo non c’è alcuna traccia, e bisogna solo sperare di non perdersi uno dei mille nomi e riferimenti che vengono messi costantemente sul tavolo.
Sia chiaro che non ne faccio una questione di aderenza ai romanzi. Non solo perché non mi ritengo sufficientemente esperto (sto procedendo al recupero e ho appena finito il terzo), ma anche perché, per quel poco che ne posso sapere, la saga letteraria di The Witcher ha effettivamente una componente analitica, dialogica, scientifica molto rilevante.
Fra ciò che funziona su carta e ciò che funziona su schermo, però, esiste qualche differenza, e soprattutto esiste un tema di coerenza interna: se The Witcher (di Netflix) riesce a conquistare un suo pubblico grazie alla sua tamarraggine, a un protagonista super figo, e una natura action abbastanza smaccata, cambiare in questo modo il registro nella terza stagione non può che avere un unico effetto su chi ha apprezzato le prime due: la noia.
A questo credo sia necessario aggiungere un ulteriore elemento: molti spettatori della The Witcher di Netflix sono fan pregressi che non vengono dai romanzi, ma dai videogiochi. E considerando che nei videogiochi, come è logico che sia, Geralt è onnipresente in quanto personaggio mosso dal giocatore, è facile capire che una stagione in cui Geralt compare così poco, e mena ancora meno, non possa che acquisire un peso insostenibile.
Ma se questi sono problemi strutturali, che attengono alla direzione che si è scientemente deciso di intraprendere, ci sono poi anche questioni più specifiche, più tecniche, legate al fatto che semplicemente non si è stati in grado di mettere qualità in ciò che si cercava di fare.
Della confusione e dei cosplayer abbiamo già detto: le scene più politiche sono molli, girate in modo scolastico, incapaci di trovare dei guizzi creativi che le rendano più digeribili.
Tutta la stagione è funestata da importanti problemi di montaggio, con personaggi che si muovono di migliaia di chilometri senza che mai si capisca bene come e in quanto tempo, con salti temporali mai debitamente segnalati, con una difficoltà costante nel capire cosa stiamo guardando, chi sta facendo cosa e perché.
Il quinto episodio, in questo senso, mi pare esemplare: senza spiegare cosa succede, basti sapere che c’è un unico evento, in un unico luogo, che ci viene mostrato più volte da più angolazioni differenti. L’idea, di per sé non particolarmente originale, può comunque essere interessante per svelare certi segreti in modo più articolato.
Peccato che la realizzazione sia sciatta, con intere porzioni di dialogo che vengono completamente ripetute, come se dopo una stagione passata a non farci capire niente, improvvisamente si sia sentito il bisogno di essere iper-didascalici, con il risultato però di farci desiderare di aumentare la velocità per superare pezzi che abbiamo già visto.
È insomma una (metà) stagione moscia e poco divertente, che perde la linearità della seconda sperando di guadagnare in complessità, ma ottenendo solo complicazione.
Poi certo, qualcosa che funziona lo possiamo pure trovare, solitamente nei momenti in cui Henry Cavill deve prendere in mano una spada e menare fendenti.
Da questo punto di vista ci sono alcune scene ben realizzate, una in particolare molto splatter e orrorifica (dai, quella coi corpi tutti uniti, ci siamo capiti).
Ma anche quando si potrebbe andare sul sicuro, spuntano problemi che a volte già conosciamo.
Per esempio, la fuga di Geralt, Yenner e Ciri è un concetto semplice, preciso, pulito, che può piacerci subito, anche considerando che Geralt e Yennefer devono ricostruire un rapporto dopo i litigi della passata stagione.
E però, sarà forse perché non avevo altro di interessante su cui concentrarmi, mi è parso ancora più fastidioso che in passato il miscasting di Yennefer, interpretata da Anya Chalotra: già ci eravamo detti che l’attrice inglese era troppo giovane e troppo “cerbiattosa” per interpretare una milf incazzata come Yennefer, ma nel momento in cui le viene chiesto di fare da mentore magica per Ciri, la cosa diventa ancora più vistosa: Freya Allan, interprete della giovane ragazzina dai capelli bianchi, ha solo sei anni meno di Chalotra, e la cosa è evidente e totalmente fuori posto. Non ci crediamo al fatto che possa farle da insegnante, e d’altro canto sentiamo sempre un piccolo effetto cringe quando Chalotra è chiama a scene romantiche con Henry Cavill, che avendo dodici anni e molti chili in più, sembra sempre suo padre.
Ci sarebbe poi un ulteriore tasto dolente, la cui importanza nell’addio di Cavill potrebbe essere più decisiva di quanto dichiarato da lui stesso, per questioni di opportunità.
Se infatti la The Witcher di Netflix si allontana in molti elementi dalla trama dei libri (ma, come detto, in misura minore rispetto alla passata stagione), a essere sempre più presente, in maniera ormai quasi ridicola, è l’ossessione per l’inclusività.
Il terreno è, come sempre, scivoloso, e nel mondo digitale iper-polarizzato in cui viviamo è difficile cercare di raccontare le sfumature, ma bisogna provarci lo stesso, come una sorta di dovere morale.
L’inclusività non è, e mai dovrebbe essere, un problema “di per sé”. Che il mondo mediale (nell’accezione più ampia del termine) possa e debba ampliare le occasioni di rappresentazione per categorie di persone che finora hanno avuto poche possibilità di espressione, dovrebbe essere un ideale abbastanza pacifico, o almeno noi qui lo riteniamo tale.
Il tema è che esistono modi e modi di fare le cose, di perseguire certi obiettivi, e soprattutto di capire quando il perseguimento di quegli obiettivi cozza vistosamente con altre azioni che, inevitabilmente, fanno emergere incoerenze e ipocrisie.
The Witcher, inteso come saga letteraria ma anche come videogioco, è un mondo che nasce dalla fantasia di un polacco, in cui praticamente tutti i personaggi sono bianchi, e in cui abbondano sesso e belle donne, senza particolare attenzione a temi di identità di genere e preferenze sessuali.
La The Witcher di Netflix è una serie multietnica, in cui l’elemento della bellezza femminile diventa secondario rispetto all’interesse per la rappresentazione dei cosiddetti corpi non conformi, in cui è ormai impossibile anche solo sperare di vedere una tetta o una scena di sesso, e in cui, udite udite, Ranuncolo, il bardo dongiovanni che per due anni (e vari romanzi e videogiochi) si è fregiato del titolo di sciupafemmine, improvvisamente è bisessuale.
Perché sì.
Ora, per essere molto chiari: non solo non c’è assolutamente niente di male nell’avere un fantasy inclusivo a vario livello, ma non è nemmeno scritto da nessuna parte che un materiale pregresso non si possa cambiare a piacimento. Sempre successo e sempre succederà.
Però queste scelte dovrebbero anche tenere conto della coerenza interna del racconto, e del modo in cui quel racconto viene venduto al pubblico.
Se ci viene detto che le maghe hanno la possibilità di modificare il proprio aspetto, se ci viene spiegato che la bellezza è per loro un’arma politica importante, e se ci viene mostrata l’importanza, per la maga protagonista, dei ritocchini magici dopo un’infanzia di problemi fisici, com’è che tutte le altre maghe sono donne normalissime, che difficilmente potrebbero spiccare per la loro bellezza? Per loro non valgono le stesse regole?
Poi certo, la bellezza è un parametro soggettivo, e potremmo essere in disaccordo sul fatto che quelle maghe siano o meno attraenti o, più nello specifico, attraenti come Yennefer. Però non dovremmo nemmeno nasconderci dietro un dito, e riconoscere che il casting qui aveva un intento molto preciso.
Stessa cosa per Ranuncolo: di per sé può fregarcene niente che sia bisex, e il fatto che sia un simpatico edonista potrebbe perfino giustificarlo, ma se la cosa salta fuori praticamente dal nulla, in un personaggio che fino a quel momento era stato caratterizzato in modo completamente diverso, l’impressione di una decisione forzata e posticcia, nata dalla necessità di spuntare una casella, si fa inevitabilmente più forte.
Intrinsecamente collegati a questi, c’è poi il tema della vendita al pubblico.
Come detto, niente di male nel concepire e mettere in scena una serie fantasy super-inclusiva, nel senso che intendiamo in questi anni. Però qui non parliamo di un brand originale pensato per quello scopo e per quella piattaforma.
Qui parliamo di The Witcher, un marchio che nasce su carta con certe caratteristiche, e che diventa famoso nel mondo grazie a un videogioco con altrettante precise caratteristiche. Se usi quel marchio per attrarre spettatori paganti, peraltro promettendogli a più riprese che nel nuovo prodotto troveranno ciò che gli era piaciuto dell’originale, poi non puoi modificare elementi così identitari in modo così smaccato, sperando che nessuno si lamenti.
The Witcher è diventata famosa nel mondo (anche) come avventura fantasy piena di battaglie, di mostri, di belle donne nude e tamarraggine: se togli tutto questo, non rimane niente, non è più The Witcher, e il fatto che tu me la venda come “The Witcher” (perché ti fa comodo), diventa qualcosa di paragonabile alla pubblicità ingannevole.
C’è margine per migliorare?
Onestamente, io sono pessimista. Dal punto di vista artistico, The Witcher non è mai stata un capolavoro, ma riusciva a incontrare l’amore dei suoi fan grazie a un preciso attore protagonista e uno specifico approccio alla narrazione e all’atmosfera.
Ora che quell’attore se n’è andato (auguri al prossimo strigo, Liam Hemsworth, a cui spetta un compito difficilissimo), e che quell’approccio sta cambiando sempre di più, mi sembra che la serie si sia avvitata in una spirale di noia e buonismo che semplicemente rende difficile divertirsi e sospendere l’incredulità mentre la si guarda, presi come siamo dalla difficoltà di seguire l’intricata sceneggiatura e costantemente scollati dalla storia a causa di scelte palesemente politiche che risultano sempre forzate e vistose.
Vedremo con gli ultimi tre episodi, che mi aspetto almeno un po’ più ritmati, quasi per logica da fine stagione. Ma mentirei se dicessi che li aspetto con ansia.