The Diplomat su Netflix – I pregi della cugina di The West Wing di Diego Castelli
Una serie sul dietro le quinte della politica gestita con piglio deciso, sceneggiature precise e un forte interesse per l’attualità
Storicamente, anche per banali questioni economiche, quello delle serie tv è sempre stato il mondo dei dialoghi, dei luoghi ripetuti, delle formule ricorsive, laddove il cinema era il luogo dell’azione, dei grandi budget, degli effetti speciali, delle regie sontuose.
Sappiamo benissimo che questa distinzione è venuta sfumandosi nel corso degli anni, e le eccezioni sono ormai talmente tante, da una parte e dall’altra, che la regola non sembra più così ferrea.
Però le serie tv sono ancora il regno delle sceneggiature, e quando una sceneggiatura è capace di tenerci inchiodati alla poltrona per otto ore, nelle quali guardiamo quasi solamente gente che parla, vestita più o meno sempre allo stesso modo, in ambienti sostanzialmente uguali a se stessi, sappiamo che ci troviamo di fronte a gente che le serie tv le sa scrivere.
Oggi parliamo di The Diplomat.
Creata da Debora Cahn (alla sua prima esperienza come showrunner dopo un curriculum non banale che comprende Homeland, Grey’s Anatomy, Fosse/Verdon, e soprattutto The West Wing), The Diplomat racconta la storia di Kate Wyler (interpretata da Keri Russell di The Americans), un’ambasciatrice statunitense che dovrebbe andare a lavorare a Kabul, e che invece si vede dirottata su Londra, dove il mestiere rischia di essere molto più ingessato e semplicione rispetto al lavoro sul campo che Karen avrebbe di gran lunga preferito.
A complicare il quadro, però, c’è un attentato non rivendicato a una nave da guerra inglese, nonché il matrimonio con Hal (Rufus Sewell), diplomatico di lungo corso molto conosciuto e apprezzato da innumerevoli leader mondiali, ma anche uno abituato a fare di testa sua e prendersi libertà che non dovrebbe, tanto che ora è rimasto senza lavoro e fa solo il marito dell’ambasciatrice.
O almeno dovrebbe.
Andiamo subito al sodo. Ci siamo detti che Debora Cahn ha un passato importante in The West Wing, negli anni in cui la mitica serie di NBC perse il suo creatore e principale sceneggiatore Aaron Sorkin, continuando però per altri 3-4 anni senza vistosi cali di qualità.
Cahn è stata una delle persone capaci di tenera viva la memoria di Sorkin, lavorando nel suo stesso stile: dialoghi fitti fitti, capaci di mescolare informazioni narrative, tecnicismi e ironia senza mai perdere il filo; personaggi di straordinaria competenza professionale, ma anche pieni di piccole fragilità umane spesso tenerissime; un sacco di “walk & talk”, la tecnica di seguire i personaggi mentre parlano e camminano insieme, così da dare un ritmo preciso ai loro dialoghi e trasmettere un istintivo senso di azione anche a scene che in teoria di azione non ne hanno per niente.
Ebbene, la buona Debora non ha dimenticato la lezione: pur in presenza di un’anima thriller leggermente più accentuata (in The West Wing si raccontava soprattutto la quotidianità della Casa Bianca, più che le grandi crisi condite pure di esplosioni), The Diplomat farà suonare più di un campanello nella mente dei vecchi fan di Sorkin.
A costruire l’impalcatura narrativa ed emotiva della serie sono diverse tensioni che si creano quasi subito e che funzionano per tutta la stagione: la tensione politica fra le varie forze in campo, con la protagonista costretta a mediare affinché non scoppi un conflitto dalle conseguenze imprevedibili; lo stile spartano e concreto di Kate contrapposto alla rigida etichetta inglese, che vorrebbe imporle stili di comportamento, di vestiario ecc; l’ambigua relazione con il marito, che Kate considera sia un possibile ostacolo al suo lavoro, sia un uomo a cui, pur con un divorzio all’orizzonte, tributa ancora un certo rispetto e un amore ambiguo ma comunque esistente (e dovremmo aggiungerci il surplus di tensione di un nuovo, potenziale interesse romantico).
A tutto questo andrebbe naturalmente aggiunto un tema prettamente femminile, cioè quello della protagonista donna in una posizione di rilievo all’interno di un mondo pieno di maschi, e pure di maschi alpha abbastanza gelosi della grandezza dei loro testicoli.
Il pregio di The Diplomat su questo tema, è di non trattarlo in modo scontato. Non stiamo parlando di una storia di lotta femminista in mezzo ai maschi cattivi. Sicuramente, però, esistono le difficoltà di una donna capace e determinata, che oltre ai problemi che devono fronteggiare gli uomini si trova pure addosso la necessità di essere effettivamente una donna, nel senso estetico e stereotipato del termine, compreso un rapporto con un marito invadente che rischia di mettere in ombra le sue fragili conquiste.
Non è questo il centro della storia, ma pur non essendo l’ingrediente principale (anzi, proprio per questo), aggiunge un sapore particolare e uno strato di spessore che poteva anche fagocitare il resto della narrazione, e che invece trova un suo equilibrio con il tutto.
Più in generale, The Diplomat è una serie che, di nuovo come The West Wing, è capace di alternare con sapienza toni diversi, senza mai risultare disordinata. C’è il thriller, c’è il giallo (bisogna capire chi ha compiuto l’attentato ai danni degli inglesi), ma ci sono anche spazi per una commedia sofisticata e leggera, che riesce a integrarsi perfettamente con il resto della narrazione conferendo tridimensionalità ai personaggi senza doverli tirare fuori dal loro ambiente.
L’impressione, insomma, è quella di una serie molto densa, che può suonare perfino documentaristica per il suo desiderio di raccontare il funzionamento di questo particolare pezzo di politica, senza per questo dare in mano agli spettatori un racconto troppo pesante o complicato da seguire.
In ultimo, mi pare giusto sottolineare un aspetto che si apprezza sempre di più con lo scorrere delle puntate, e cioè un’immersione precisa ed esplicita della serie nella nostra contemporaneità.
È vero che, per esigenze produttive, il Presidente degli Stati Uniti non può essere Joe Biden né quello inglese può essere… qualunque sia attualmente il premier inglese, lo cambiano ogni due minuti (per la cronaca, alla pubblicazione di questo articolo è Rishi Sunak).
Allo stesso tempo, il Presidente americano è anziano e facile alle gaffe, così come quello inglese è preso da una smania di farsi vedere come solo uno a capo di uno stato pieno di contraddizioni e post-Brexit può essere (fra l’altro è interpretato da Rory Kinnear, che il premier l’aveva già interpretato nella prima puntata di Black Mirror, quando doveva fare sesso con un maiale: Rory, cambia parte perché ti finisce sempre male).
Soprattutto, la Brexit c’è stata, e c’è la guerra in Ucraina mossa da Putin, e c’è insomma il tentativo di raccontare una storia fittizia ma le cui dinamiche sono strettamente legate a ciò che sta effettivamente accadendo del mondo.
Una scelta molto ardita, perché passibile di invecchiamento istantaneo, ma che funziona benissimo proprio perché ci butta ancora meglio dentro la storia, dandoci l’impressione di guardare uno scenario plausibile, che riesce perfino a insegnarci qualcosa.
In conclusione, The Diplomat si può solo approvare, anche perché dopo tanto parlare riesce pure a finire con un cliffhanger molto efficace, dopo il quale le otto ore della prima stagione sembrano volate via in un lampo.
Ai tempi di The Americans, Keri Russell interpretava una spia russa ben integrata nella società statunitense, che rispetto al marito (spia pure lui) aveva un piglio molto più spiccio e interventista, che volte era necessario e altre volte doveva essere tenuto a bada per non mandare tutto in vacca.
In The Diplomat, Keri torna a essere americana, ma non perde il volto di donna sveglia e con gli attributi, da non sottovalutare mai, e che è già diventata, insieme al marito burlone, un personaggio seriale di cui ci ricorderemo.
Perché seguire The Diplomat: per la qualità della scrittura, che fa pensare a quel capolavorone di The West Wing.
Perché mollare The Diplomat: se la politica è un tema che proprio non vi interessa, sappiate che qui occupa l’80% della narrazione.