The Good Mothers – Su Disney+ una miniserie bella e tosta di Diego Castelli
Sei puntate, una storia vera, un mondo che merita di essere raccontato anche se fa male solo guardarlo
Se volessi fare un battuta, all’inizio di un articolo in cui parlo bene di una serie italiana, potrei dire “ah ma certo, è tratta dal libro di un inglese, è scritta da un altro inglese, e per metà diretta da un altro inglese ancora”.
Sarebbe però una battuta cattiva, considerando che tutto il resto della produzione è pienamente italiano, e tenendo conto che la miniserie ha vinto il primo Berlinale Series Award all’interno del Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Insomma, sono Diego Castelli, oggi parliamo di The Good Mothers (certo che anche voi, un titolo italiano no?), e ne parliamo bene.
Che bella novità, eh?
Tratta dall’omonimo romanzo di Alex Perry e disponibile su Disney+ con tutti e sei gli episodi, The Good Mothers racconta una storia vera risalente al 2009-2010.
In Calabria, il magistrato Anna Colace, donna in un mondo molto maschile, elabora una nuova tattica per combattere i clan della ‘ndrangheta: coinvolgere le donne dei clan facendo leva sull’esistenza terribile che sono costrette a vivere, per convincerle a diventare collaboratrici di giustizia e offrire preziose informazioni per la cattura e incriminazione dei boss.
Le protagoniste sono sostanzialmente cinque: Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), moglie del boss Carlo Cosco, che torna in famiglia dopo essere stata una pentita e sparisce pochi giorni dopo il suo ritorno in Calabria; Denise Cosco (Gaia Girace, la Lila de L’Amica Geniale), figlia di Lea e Carlo che dopo essere stata in fuga con la madre per anni si ritrova da sola con un padre che non stima (eufemismo); Giuseppina (Valentina Bellè), figlia del boss Salvatore Pesce, madre di tre figli; Maria Concetta Cacciola, migliore amica di Lea e pure lei figlia di personalità della ‘ndrangheta; Anna Colace (Barbara Chichiarelli), già citata sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
Una delle cose che colpiscono di più, di The Good Mothers, è la sua volontà di stare lontana da certe aspettative hollywoodiane che potrebbero sorgere nel leggere la trama.
Non siamo di fronte al classico thrillerone crime, in cui la semplice idea di una o più persone che escono da una famiglia criminale diventa la scusa per scene tutte votate alla suspense, inseguimenti notturni e sparatorie.
Siamo proprio da un’altra parte.
Più che raccontare una storia (anche se naturalmente ne racconta più di una), The Good Mothers descrive un mondo. E se questo potrebbe sembrare “non abbastanza”, bisogna considerare che quel mondo risulterà così alieno e insieme così geograficamente vicino, da creare un effetto emotivo particolarmente potente solo per il fatto di esistere.
Un mondo che, scontato dirlo, fa abbastanza schifo.
Le donne di The Good Mothers, che sono effettivamente madri ma anche figlie, amiche, nonne ecc, vivono una vita in cui non contano nulla. Nelle famiglie della ‘ndrangheta, le donne sono macchine da riproduzione, soprammobili di prestigio, status symbol, tutto fuorché persone in carne e ossa.
In molti casi sono un fastidio, perché la principale preoccupazione di un uomo nei confronti delle donne è certificare il loro potere su di loro: un boss che non sa non tenere a bada le proprie donne mostra di essere debole e indegno di rispetto.
Naturalmente, per tenere saldamente in mano la vita delle femmine del branco, ogni strumento è lecito: la minaccia, l’insulto, la violenza fisica, la segregazione, la ricerca sistematica di qualunque donna decida di fare di testa sua.
Le donne della ‘ndrangheta non sono persone, sono proprietà, e ognuna di loro è chiamata a ricordarselo in ogni momento.
A questo punto bisogna chiarire un punto importante, che fa tutta la differenza nel giudizio della miniserie.
The Good Mothers poteva decidere di vincere facile, e per certi versi lo fa: nel momento in cui mette in scena una mandria di uomini cattivi e violenti, aizzati contro un gruppo di donne indifese, stuzzica l’indignazione del pubblico, ne rapisce l’attenzione, e obbliga a rimanere con gli occhi fissi sullo schermo fin quando queste povere criste non troveranno un po’ di pace e giustizia.
Se però fosse tutto qui, una netta divisione fra bianco e nero, con donne che non vedono l’ora di fuggire e aspettano solo che qualche eroe (o eroina, in questo caso) le salvi, non solo si farebbe un torto alla verità dei fatti, ma ci ritroveremmo in mano con un prodotto di scarso spessore.
Per fortuna, in The Good Mothers la situazione è parecchio più complicata.
Certo, le due principali protagoniste sono una madre e una figlia fuggite dalla mafia, e certo, quando Maria Concetta viene menata dal padre perché scambia messaggi al cellulare con persone sconosciute minacciando l’onore della famiglia, non c’è molto dubbio su ciò che questi personaggi provano e desiderano.
E poi, però, c’è il mondo della ‘ndrangheta. C’è una microsocietà parallela a quella che tutti conosciamo, con le sue regole e strutture, che esercitano sulle persone una pressione di cui spesso nemmeno si rendono conto.
Così, per esempio, decidere di lasciare la famiglia portandosi via i figli, decisione che tutti noi potremmo trovare ovvia e inevitabile, genera le proteste di quegli stessi figli, che non vorrebbero lasciare l’unica famiglia che conoscono. Oppure, si potrebbe finire in una casa sicura, scoprendo che non è sicura affatto, e che tua madre e tua sorella, sangue del tuo sangue, ti trovano abbastanza in fretta, ti raccontano quanto tu stia sbagliando, e riempiono di sterco mafioso la testa dei tuoi figli.
Il bello di The Good Mothers, insomma, non sta tanto nell’articolazione della sua semplice trama gialla, ma nella restituzione di un senso di oppressione che ha un che di ancestrale, definitivo, quasi mistico. Tutta la tensione della serie si crea nel contrasto fra l’istinto di fuggire e salvarsi, e l’inconscia convinzione che non ci sia alcuna via di fuga, e che quindi la strategia migliore sia fare buon viso a cattivo gioco e accettare le regole in cui si è nate e cresciute.
Il fatto che ci siano donne pienamente integrate nella struttura malavitosa, che accettano il loro ruolo e quasi ne fanno un vanto, aumenta la forza delle catene con cui le protagoniste sono legate alle proprie famiglie, e il senso di abbandono, di solitudine, perfino di colpa, che provano quando decidono di allontanarsene.
Per noi che siamo persone sane di mente e che, soprattutto, non sono cresciute in un ambiente del genere, l’idea che tutto questo sia accaduto e ancora accada a un passo da noi aggiunge un elemento di sgomento e incredulità che aumenta ulteriormente la nostra partecipazione emotiva, ben più che nel guardare una semplice vicenda di “donne maltrattate”. The Good Mothers non ci mostra l’eccezionalità di una violenza che possiamo considerare deviante e per questo episodica, bensì la pervicacia di un Male che si mostra alle sue stesse vittime come Ordine, Tradizione, Famiglia.
Se tutto questo funziona, meglio che in molte altre serie italiane che hanno comunque provato a raccontare la malavita, si deve alla bravura del cast e ad alcune precise scelte di messa in scena (oltre alla decisione alla base di tutto di cui abbiamo già detto, cioè quella di mostrare la natura grottesca di un mondo apparentemente fuori dal tempo, a prescindere dalla singola storia di giustizia e redenzione che gli viene costruisce sopra).
I nomi più noti del cast sono probabilmente quelli di Micaela Ramazzotti e Gaia Girace, ma i veri applausi vanno fatti a Valentina Bellè (già protagonista di Volevo fare la rockstar, ma vista anche in numerose altre fiction e film tipo I Medici). La sua Giuseppina è il personaggio che più di altri incarna quella tensione tra famiglia mafiosa e aspirazioni personali di cui dicevamo prima, nonché l’attrice che più di tutte le altre è chiamata a mostrarci sul volto e nella voce la potenza dirompente di quel senso di oppressione.
E lei lo fa, costruendo una donna forte e dura, ma non indistruttibile, sempre sull’orlo dell’abisso, capace di slanci di coraggio ma anche ritirate precipitose di cui comprendiamo in ogni momento le ragioni e le difficoltà.
Ma è tutto il comparto produttivo e artistico a girare come si deve, andando dritto al punto senza mai strafare (con il solito problema, immancabile con le serie italiane, di qualche attore/attrice fra i comprimari che proprio non ce la fa).
La scelta che probabilmente ho più apprezzato è quella di fare terra bruciata intorno alle famiglie malavitose: nei paesini comandati dalla ‘ndrangheta non vola una mosca, non c’è nessuno per le strade se non i membri della famiglia, e i negozianti sono schiavetti spaventati che non fanno mai pagare nulla ai parenti del boss.
Nel corso di sei episodi, questo deserto fisico, questo silenzio innaturale, diventa metafora del deserto culturale e valoriale creato dai mafiosi, che vivono essi stessi una vita immobile e piena di privazioni, perché assuefatti alla dipendenza da un potere piccolo e viscido, ma per la cui conservazione si è disposti a qualunque malefatta.
Quando scorrono i titoli di coda, che come spesso accade ci raccontano l’effettivo futuro dei protagonisti della vicenda, a restarci in testa non è tanto un twist o un’esplosione, ma lo sgomento silenzioso di fronte a una barbarie che lascia ammutoliti.
Soprattutto, una deviazione dal bene e dal giusto di cui ora comprendiamo meglio i contorni, avendo imparato non solo quanto è difficile vivere da donna in un ambiente del genere, ma anche, paradossalmente ma non troppo, quanto è difficile tentare di lasciarselo alle spalle.
Una bella serie, compatta e semplice, ma che resta.
Perché seguire The Good Mothers: racconta un mondo terribile ma molto vicino a noi, che è dolorosamente necessario conoscere.
Perché mollare The Good Mothers: sono sei puntate di puro disagio e pesantezza, bisogna saperlo.