Daisy Jones and The Six – Prime Video si tuffa negli anni Settanta di Diego Castelli
Una miniserie mockumentary su una band degli anni Settanta, con molti pregi e un grosso difetto
In questi giorni c’è maretta in casa Castelli-Villa (che peraltro, visto che mia madre si chiama Villa pure lei, pare una confessione effettivamente familiare). Non bastava The Last of Us a creare frizioni, come ben sa chi ci segue al venerdì su Salta Intro, ma ora è arrivata anche la nuova miniserie di Prime Video, sulla quale ci siamo scannati nella puntata di Salta Intro+ uscita oggi, martedì 7 marzo 2023.
L’oggetto del contendere è Daisy Jones and The Six, e sul piatto della bilancia ci sono le solite questioni: dove sta la qualità? E dove mettere l’asticella che separa ciò che è mediocre e perdibile, da ciò che merita almeno una chance?
Creata da Scott Neustadter e Michael H. Weber a partire dall’omonimo romanzo di Taylor Jenkins Reid, Daisy Jones and The Six è una miniserie mockumentary (quindi finto documentario con interviste ai personaggi, tipo The Office) che racconta l’epopea di una famossima (ma fintissima) band degli anni Settanta, chiamata per l’appunto Daisy Jones and The Six, che dopo una fiammata di altissima popolarità finì in un nulla abbastanza sorprendente e particolare da meritarsi un (finto) documentario anni e anni dopo.
Finta la storia ma vera la nostalgia, verrebbe da dire, per un’operazione di lungo corso (la produzione, nelle sue fasi preliminari, è iniziata 5 anni fa) che punta, in sei episodi totali, a ricreare certe atmosfere e certe dinamiche, riferite a un tempo per molti versi mitico.
I protagonisti di Daisy Jones and The Six sono sostanzialmente due, o per lo meno due gruppi: i The Six da una parte, una band di ragazzi come tanti, con il sogno della musica e del successo, capitanati dal carismatico Billy (Sam Claflin); Daisy Jones (Riley Keough) dall’altra, una ragazza di buona famiglia ma dall’animo ribelle, che spera di poter buttare nella scrittura di canzoni e nel canto tutte le frustrazioni di una ragazzina teoricamente perfettina, ma desiderosa di avere qualcosa di più dalla vita.
L’elemento forse più curioso della trama, dal punto di vista narrativo (se escludiamo il mockumentary che solitamente siamo abituati a vedere nella comedy), è proprio il fatto che l’incontro fra questi due fondamentali blocchi di personaggi arriva alla fine del terzo episodio, quindi a metà della miniserie.
Gli autori, insomma, si prendono tutto il tempo che ritengono necessario per costruire la base narrativa e psicologia su cui inserire l’incontro, che fin dall’inizio ci viene preannunciato come importantissimo.
Al momento di scrivere questa recensione ho visto solo i primi tre episodi (i restanti tre arriveranno fra pochi giorni), e quindi non so effettivamente come si svilupperà la faccenda.
Ma non ho voluto aspettare, così da poter mettere eventualmente i restanti episodi nei Serial Moments.
Ognuno ha le sue priorità, lasciatemi stare.
Si diceva di una diatriba fra me e il Villa su questo esordio, con un dettaglio non trascurabile: siamo sostanzialmente d’accordo sui pregi e difetti della serie, mentre siamo all’opposto su ciò a cui bisogna dare più peso.
Intanto diciamo che una cosa su cui siamo d’accordo c’è, ed è la bellezza totale, assoluta, devastante di Camila Morrone (famosa soprattutto per essere la ex di Leonardo DiCaprio), che nella serie interpreta la ragazza di Billy, Camila (non ho sbagliato, personaggio e attrice si chiamano allo stesso modo, tipo nei film di Aldo Giovanni e Giacomo).
Io poi in questa serie vedo diversi pregi, soprattutto nella capacità di creare la famosa atmosfera, e di costruire una tensione fra i personaggi che sia motivata e centrata rispetto a quello che vediamo sullo schermo.
Naturalmente la musica gioca un ruolo importante: per la serie sono state composte 24 canzoni originali (che peraltro si possono trovare in parte su Spotify in un finto-album che si chiama come il primo album della band), e su quel fronte va abbastanza a gusto: sono sound che a me piacciono, e che trovo ben messi in scena dai protagonisti.
Ma gli anni Settanta di Daisy Jones and The Six non sono solo musica. Sono anche il desiderio di sfondare, la necessità quasi fisica di uscire da certi schemi preconfezionati, e poi naturalmente l’ingenuità e l’incapacità di gestire le inevitabili difficoltà, che nella spinta entusiasta verso i sogni non sono state adeguatamente previste e contemplate.
Più in piccolo, poi, ci sono motivi di interesse più specifici e più tecnici: se i Six, e in particolare Billy, sono stati scritti seguendo un canovaccio ben conosciuto e riconosciuto come stereotipato perfino dagli stessi personaggi nelle loro versioni adulte, Daisy è invece una ragazza più particolare, debitrice di un femminismo seriale molto contemporaneo tale per cui non può essere la più incasinata e ingenua del gruppo, ma senza per questo trasformarla in un macchietta: nella serie che porta il suo nome, Daisy è prima di tutto una forza della natura, una che rifiuta regole ed etichette per puro amore di un’arte che (per sua fortuna e sua fatica) le riesce così bene da aprirle porte che altrimenti rimarrebbero chiuse.
Nel rapporto emotivamente conflittuale ma artisticamente fecondo fra Billy e Daisy – un rapporto che, come detto, inizia tardi, ma dopo averci fornito le giuste consapevolezze – sta buona parte dell’interesse per questa miniserie.
Dove sta dunque il problema? È presto detto.
Facendo tutte le cose a modino, e attenendosi a una sorta di manuale narrativo che quasi sempre entra in gioco con queste storie di musica, sogni e nostalgia per il passato, Daisy Jones and the Six non sbaglia nulla di clamoroso, ma allo stesso tempo rischia troppo poco.
Al netto del gusto per specifici elementi come le scelte musicali, l’approccio molto americano e quindi classicissimo nella messa in scena (contrapposto, per esempio, allo stile british di Pistols, di Danny Boyle), perfino la palette di colori e la fotografia, è abbastanza palese che Daisy Jones and The Six voglia raccontare una storia dritta, precisa, in cui tutte le componenti stanno nel posto giusto, ma così giusto che non potrebbero stare altrove.
Un concetto che normalmente saluteremmo con favore, almeno sulla carta, ma che a conti fatti rischia di tramutarsi in una certa freddezza o, per essere più cattivi, perdibilità.
È un fatto che mi sono visto con gusto i primi tre episodi della miniserie, così come è un fatto che attendo con piacere i restanti tre, e che ho apprezzato tanti elementi dello show, a partire dalla bellezza (intesa in senso estetico ma anche più ampio, di presenza scenica) di molti personaggi.
Ma se mi chiedete se fra tre anni ricorderò con intensità le due settimane di Daisy Jones and The Six, ecco, questo al momento è più difficile. Un prodotto ben confezionato non è necessariamente un prodotto “memorabile”, e questo può diventare particolarmente vero per una miniserie che, paradossalmente, racconta di anni di ribellione, sperimentazione, eccessi e stravolgimenti, rimanendo nel solco di una narrazione largamente classica e costruita con righello e goniometro.
Manca insomma qualche guizzo creativo che non siano solo quelli artistici dei personaggi, e per come si è messa finora la faccenda non mi aspetto di trovarne nei tre episodi che mancano (anche se naturalmente potrei essere smentito, nel caso farò un edit qui sotto).
Certo, se sentite il Villa vi dirà che qui dentro non c’è niente di interessante punto e basta, e su questo non sono d’accordo. Le serie meritevoli non sono solo quelle che inventano cose rivoluzionarie, ma questo non ci trova in disaccordo.
Il tema, dunque, resta quello del gusto rispetto a una serie di elementi che riconosciamo nelle loro funzioni e nella loro estetica, e che possiamo apprezzare o meno, da cui possiamo essere intrattenuti o no.
Io sto seguendo volentieri la vita di questi personaggi, mi piace guardare le loro performance sul palco e dietro di esso, e sono curioso di vedere cosa gli succederà nella seconda parte della storia.
Ma da una produzione così ambiziosa era comunque lecito aspettarsi qualcosa di più dirompente.
Perché seguire Daisy Jones and The Six: una storia breve, raccontata con cura, con buone musiche e buoni interpreti.
Perché mollare Daisy Jones and The Six: è una miniserie troppo perfettina, a cui manca lo slancio creativo per diventare davvero memorabile.