17 Gennaio 2023

The Makanai: Cooking for the Maiko House – Un adorabile gioiellino giapponese di Diego Castelli

Amicizia, tradizione e la ricerca del senso della vita in una serie di Netflix scritta e diretta da Hirokazu Kore’eda

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Le serie tv, come qualunque forma di intrattenimento sufficientemente diffusa e variegata, possono rispondere a numerosi bisogni. Possono far ridere se abbiamo voglia di divertirci, possono commuovere e fare arrabbiare, possono impaurire e inquietare. A volte ci danno esattamente quello che vogliamo, altre volte ci provano e falliscono.
Altre volte ancora, a sorpresa, ci danno cose di cui non sapevamo di avere bisogno.
Un po’ come accaduto a me con The Makanai: Cooking for the Maiko House.

Disponibile su Netflix, tratta dal manga Maiko-san Chi no Makanai-san di Aiko Koyama, e adattata per il piccolo schermo da Hirokazu Kore’eda (già Palma d’Oro a Cannes con Un affare di famiglia), The Makanai è una di quelle serie che, se guardate al momento sbagliato (ognuno decide per sé quale è il momento sbagliato), possono lasciare poco e niente, risultando potenzialmente vuote. Ma se invece ti beccano nel momento giusto, come evidentemente accaduto a me, ti prendono il cuoricino, se lo portano al petto e te lo cullano piano piano, facendoti desiderare di mollare tutto solo per guardarle in loop.

The Makanai (scusate se non scrivo ogni volta il titolo completo) racconta dell’amicizia fra due ragazzine quindicenni che si trasferiscono a Kyoto per entrare in una casa/scuola per geishe.
Kiyo (Nana Mori) e Sumire (Natsuki Deguchi) hanno lo stesso sogno, ma solo la seconda sembra avere la stoffa per diventare una vera maiko (cioè un’apprendista geisha). Kiyo è più goffa e impacciata, non è in grado di riprodurre decentemente le danze e i gesti rituali necessari alla professione, e quindi rischia di dover tornare a casa.

La sua passione e abilità con la cucina, però, le aprono una strada inaspettata: diventare la makanai della casa, ovvero la cuoca che cucina e serve i pasti alle giovani apprendiste e alle due “madri” che gestiscono la scuola.
Kiyo trova così una nuova occupazione, non è costretta a tornare a casa, e può dare supporto alla sua amica nello studio e nel perfezionamento dell’antica arte delle geishe.

A uno sguardo superficiale, e soprattutto a uno sguardo intriso di storytelling hollywoodiano/occidentale, The Manakai potrebbe sembrare una serie troppo lieve, quasi vuota.
Non si lavora sulla suspense, non ci sono passioni esacerbanti e odi velenosi, non ci sono sfide fisiche o dialettiche fra buoni e cattivi, nessuno rischia di morire, nessuno rischia di ammazzare qualcun altro.

Anche le ambizioni e le delusioni delle due protagoniste, che altrove sarebbero la base per crisi di pianto e progetti di vendetta, qui non innescano deflagrazioni improvvise, urla e montaggi sincopati. Tutto è leggero, lento, misurato e, in definitiva, ottimista.

Eppure… eppure, se ci si lascia rapire dal tono pacato e sussurrato, The Makanai apre un mondo che non solo non è vuoto, ma anzi è ricco di sfaccettature e di riflessioni non banali, di piccole finestre su altrettanto piccoli vissuti, capaci però si risuonare ben più lontano di una provincia giapponese che alla prima occhiata potrebbe sembrare lontanissima.

È chiaro che The Makanai ha anche un palese valore documentaristico. Kore’eda è anche un abile regista di documentari, e la serie è prima di tutto un viaggio alla scoperta di un mondo sostanzialmente sconosciuto a noi occidentali e probabilmente curioso e particolare anche agli occhi degli stessi giapponesi.

Le geishe – il cui lavoro lavoro artistico fatto di costumi, trucco, danze tradizionali e intrattenimento colto è molto meno pruriginoso di quello che si pensa di solito in Occidente – fanno parte di una cultura che sta lentamente svanendo, ed esplorare il dietro le quinte della loro formazione, con la dichiarata aggiunta di un viaggio nei meandri della cucina tradizionale nipponica, ha un valore innanzitutto conoscitivo, esplorativo, ci permette semplicemente di “saperne di più” una volta finita la visione.

Se ci si limitasse a questo, però, sarebbe stato effettivamente meglio un documentario.
The Makanai però una storia ce l’ha, e per quanto non sia pomposa e incalzante, serve a trasmettere tutto un universo di senso che la serie evita accuratamente di urlare in faccia allo spettatore, ma che emerge comunque dalle pieghe del racconto e dei dialoghi fra i personaggi.

Quello che noi vediamo, nel seguire la crescita di Kiyo e Sumire, è un microcosmo in cui, attorno al concetto dell’arte delle geishe, orbitano personaggi che sono in punti diversi di uno stesso, ideale percorso.
Ci sono le ragazze che studiano per diventare maiko. C’è quella che deve abbandonare il sogno e costruirsi una carriera diversa. Poi c’è quella che geisha lo è già, e pure fra le più apprezzate del Paese, ma che deve scegliere se continuare a seguire quella vita quasi monastica (le geishe, per esempio, non si possono sposare fin tanto che svolgono quella professione). C’è la ex geisha che ha lasciato il lavoro per accasarsi, ma ora vuole divorziare e tornare nel posto che considera ancora casa sua. Ci sono le due ex geishe che ora gestiscono la casa e sono chiamate a fare un bilancio della loro vita e a pensare al futuro.

Come se fosse sospesa nel tempo, custode di un sapere artistico millenario che smetterà di esistere nel momento in cui non sarà più tramandato “di madre in figlia” (metaforicamente parlando), la “maiko house” del titolo è un luogo di apprendimento e conoscenza, ma anche di riflessione su se stessi.
Il percorso di Kiyo e Sumire è prima di tutto una ricerca del proprio posto nel mondo, una ricerca che prevede la possibilità di sbagliare strada e doverne intraprendere un’altra, nella consapevolezza che, però, da qualche parte una strada per sé esiste.

Paradossalmente, è proprio in un contesto apparentemente anacronistico e privo di senso pratico che le ragazze trovano invece una ragione di vita: i piccoli gesti, le segrete tradizioni, le sfumature di un’arte compresa da pochi, diventano il modo per imbrigliare una realtà altrimenti caotica in una rete di senso che si giustifica da sé, che non ha bisogno di un’approvazione esterna che non venga dalla propria passione e dalla sensazione di essere nel posto in cui si era destinati a stare.

La cucina di Kiyo, poi, è l’ultimo pezzo del puzzle. La passione che la ragazza mette nella preparazione dei suoi piatti, e che non riusciva invece a produrre in quanto aspirante geisha, è la metafora di un’attenzione e di una cura per le persone che è il livello più profondo di The Makanai.

Non siamo in presenza, almeno non del tutto, di una “serie sulle geishe”. Assistiamo invece alla silenziosa enormità di un’amicizia purissima, priva di scorie e di invidie, in cui scegliere e accudire una famiglia che non è quella di sangue, ma che è frutto di una scelta consapevole, è tutto ciò che serve per essere felici e per sentire di far parte di qualcosa.

Nel mettere in scena questa minuscola eppure significativa porzione di mondo, Kore’eda sceglie di prestare attenzione ai dettagli (della cucina, della danza, delle scenografie), stupendoci spesso con una colonna sonora insieme allegra e rilassante, che in ogni momento disinnesca qualunque potenziale attrito, restituendoci la sensazione di una placida crescita, di un lento fluire di emozioni.

Spesso, il montaggio e la regia sembrano perdere un battito, aspettando uno o due secondi in più prima di staccare da un’inquadratura, per indulgere su una neve che cade o sull’espressione estatica di qualcuno che mangia un piatto sorprendentemente buono, facendoci ascoltare, con gioia infantile, gli slurp e crunch abbinati a una pasta in brodo o una crosta zuccherina.
Quello di The Makanai non è un mondo che sta per essere sconvolto da qualche inaspettata apocalisse, reale o metaforica. Al contrario, è un’oasi di ripetizione e stabilità in mezzo al caos. A volte anche troppa stabilità, se dobbiamo guardare a un paio di personaggi che mostrano una certa insofferenza verso la vita e le regole della casa, o qualche piccolo rimpianto per delle gioie non vissute.

Ma tutto finisce col ricomporsi, sempre e comunque, in un fluire di regole ferree ed entusiasmi genuini per cose minuscole, perché in tutto questo paesaggio non c’è mai l’ombra della coercizione. C’è la necessità di dover scegliere, questo sì, nella consapevolezza che ogni scelta prevede di lasciar andare qualcosa per avere qualcos’altro, ma è proprio nella possibilità di scegliere (un lavoro, un’amicizia, un destino) che The Makanai ci insegna l’importanza del qui e ora, e la responsabilità di ognuno di noi circa il raggiungimento della propria felicità.

Per me è stata la sorpresa più dolce di queste settimane. Vederla tutta in un week end invernale è stato come essere sospesi in una bolla, e uscirne ha fatto l’effetto sgradevole di un ritorno al disordine e all’inquinamento (non tanto atmosferico, quanto emozionale).
Appassionarsi a The Makanai significa rinunciare alle cose enormi per dedicarsi a quelle piccole, scoprendo che non di sola enormità vive l’uomo, e che anzi saper infondere di senso le piccole cose della vita, è una via nuova e sorprendente verso la serenità.

Fatico a fare grandi paragoni. Un riferimento ovvio, sulla stessa Netflix, dovrebbe essere Samurai Gourmet, che però aveva una messa in scena molto più amatoriale e un piglio documentarisco (a parte il samurai) ancora più spiccato.
A me sono venute subito in mente certe scene di Downton Abbey, per lo meno per ciò che riguarda il tornare a un mondo antico pieno di regole e regolette, che diventa quasi un rifugio dal presente più angosciante.
Poi però Downton Abbey angosciante lo sapeva diventare davvero, quando voleva, mentre The Makanai no.
Qui solo gioia, cibo e kimono.
Che serenità…

Perché seguire The Makanai: Cooking for the Maiko House: perché scalda il cuore nelle sere d’inverno.
Perché mollare The Makanai: Cooking for the Maiko House: se non riuscite ad accettare il suo ritmo calmo e la sua indole paciosa.



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