Resident Evil su Netflix – Ennesimo tentativo, ennesimo spreco di Diego Castelli
La mitica saga videoludica di Resident Evil non riesce proprio a diventare un film o una serie che ne rispetti l’atmosfera e il carisma
Non ho dati statistici per confermarlo, e non credo nemmeno che ne esistano di oggettivi, ma la sensazione è comunque abbastanza chiara: esistono poche saghe che siano state così maltrattate nel passaggio da un medium all’altro, e con la stessa pervicacia, di Resident Evil.
Nata nel 1996 come (ottima) serie di videogiochi, capace di diventare uno dei primi e più famosi simboli della neonata Playstation, Resident Evil (nome occidentale che da noi sostituisce l’originale Biohazard) si è progressivamente espansa comprendendo non solo numerosi seguiti del primo capitolo, spazianti su molte piattaforme, generi e formati, ma esondando anche su altri media, come appunti i film, i manga, l’animazione, e ora le serie tv in live action.
Non solo: al di là delle sue molte incarnazioni e dei brand a cui si è legata, la saga di Resident Evil si porta dietro anche alcune specifiche rilevanze culturali, come quella di aver in qualche modo fondato o comunque reso popolare il genere survival horror nei videogiochi (giochi cioè in cui si cerca di progredire in una storia e risolvere una trama in cui più che sparare e ammazzare si cerca di scappare e restare vivi in un mondo eccezionalmente ostile), e quella di aver dato nuovo lustro al genere zombie, che con la fine degli anni Ottanta aveva perso rilevanza nella cultura di massa.
In tutto questo, però, resta un problema. Un problema nemmeno quantitativo, perché la saga di film con Milla Jovovich e ispirata ai videogiochi di Capcom è a tutt’oggi la serie di film tratti da videogiochi che ha incassato di più nella storia del cinema.
Il problema è un altro, e cioè che, da quando Resident Evil ha cominciato a essere altro rispetto ai primi capitoli per console, ha anche smesso di essere Resident Evil.
Per chi non ci avesse mai giocato, è bene sapere che Resident Evil – incentrata su un virus prodotto dalla Umbrella Corporation che, una volta sfuggito al controllo, si mette a trasformare la gente in zombie – è una saga pienamente horror, dove la suspense ha un peso molto maggiore dell’azione, dove si aveva paura a fare anche mezzo passo, perché terrorizzati da cosa ci sarebbe stato al prossimo angolo o nella prossima schermata.
Una saga in cui si saltava sulla sedia, si risolvevano enigmi, e sì, poi ogni tot si sparava e si combatteva per avere salva la vita. Ma con una impostazione, per l’appunto, pienamente “paurosa”.
Già con il primo film del 2002, scritto e diretto da Paul W. S. Anderson, ci si accorse di uno shift. In quel caso, e ancora di più con i capitoli successivi, Resident Evil venne presentata al cinema come saga d’azione e fantascienza, molto tamarra, molto mossa, con personaggi che non c’entravano con gli originali e via dicendo.
Per aspettare una versione cinematografica che fosse un po’ più fedele al materiale originale, si dovette aspettare Resident Evil: Welcome to Raccoon City, del 2021, che però, di nuovo e per altri, si rivelò un film poco memorabile.
Perdonatemi la lunga introduzione, ma mi serviva per dare a chi non conosce la saga un certo specifico quadro: immaginate dei videogiocatori di fine anni Novanta (come me che su Resident Evil 2 spesi tante ore e tanti spaventi), che per 25 anni aspettano di vedere una versione audiovisiva di quella saga che le sia in qualche modo fedele, rimanendo sempre delusi.
E se tante volte ci siamo detti che il materiale originale di una qualunque storia non può essere una gabbia assoluta, allo stesso tempo sappiamo pure che, se usi il nome di un certo brand per farti pubblicità e per attirare pubblico, poi a quel brand devi tributare un minimo di rispetto. Cosa sia il rispetto è tutto da chiarire, ma almeno ci devi provare.
E qui arriviamo… a Resident Evil, la serie di Netflix creata da Andrew Dabb (un passato da sceneggiatore e produttore per Supernatural) che rappresenta l’ultima incarnazione della saga in ordine di tempo. E direi che vi ho tenuto in sospeso già abbastanza: è andata male.
Ambientata su due diverse linee temporali, 2022 e 2036, entrambe dichiaratamente successive a un primo incidente della Umbrella Corporation accaduto negli anni Novanta (e narrato nei videogiochi), la Resident Evil di Netflix ci mostra la solita azienda che, ancora una volta e senza imparare dai propri errori, gioca con il famigerato T Virus cercando di affinarne le capacità benefiche, finendo però, guarda caso, con il causare un’apocalisse zombie che devasta l’intera umanità.
Protagoniste della storia sono le sorelle Jade (Tamara Smart in versione giovane e Ella Balinska in versione adulta) e Billie (Siena Agudong da giovane e Adeline Rudolph da adulta), che da figlie di un importante scienziato dell’Umbrella (Albert Wesker, interpretato dal Lance Reddick di Fringe) vengono a scoprire oscuri segreti dell’azienda e, pure con un po’ di sfiga, si trovano in mezzo a mille pericoli.
Se cercate su internet, le recensioni di Resident Evil sono quasi tutte cattivissime, e in molte, soprattutto sui siti di videogiochi, si legge proprio quella frustrazione di cui dicevamo: ancora una volta, un prodotto tratto da Resident Evil che non racconta la storia di Resident Evil, ma che soprattutto ne tradisce l’impianto, visto che questa serie, più che un survival horror, è in molti casi un action e in altri addirittura un teen drama, con tanta, troppa attenzione alle dinamiche scolastiche delle sorelle, alla loro relazione reciproca e con il padre, a scene su scene in cui gli zombie sembrano cosa lontanissima.
E se è vero che il 2022 è un anno in cui gli zombie seriali non sono certo una novità, cosa che giustificherebbe il tentativo di creare qualche variazione sul tema, resta il fatto che se gli vendi Resident Evil, e poi non è Resident Evil, il videogiocatore si incazza, e ha pure un po’ ragione.
Ma anche senza essere videogiocatori e partendo da semplici appassionati seriali, lo show mostra più di un problema.
L’unica lancia che mi sento di spezzare riguarda l’aspetto puramente scenografico e degli effetti speciali: avevo letto cose terrificanti e mi aspettavo di guardare un b-movie indiano (con tutto il rispetto), ma in realtà, dal punto di vista della messa in scena, della resa di alcune scene di suspense, e della qualità degli effetti speciali, credo che recentemente abbiamo visto di molto peggio.
Il problema però sta nella scrittura e, in molti casi, nel montaggio.
La conduzione parallela della storie sulle due linee temporali riesce inizialmente a dare un po’ di ritmo e creare un qualche mistero, ma ci vuole poco perché diventi una forzatura che in realtà l’interesse lo spezza, producendo vistosi e improvvisi cambi di genere che diventano troppo spiazzanti.
La storia, che inizialmente pareva abbastanza lineare, diventa poi sempre più confusa, e arriva addirittura a cambiare in maniera incomprensibile il modo in cui certi personaggi sono fisicamente rappresentati sullo schermo. L’esempio più clamoroso è Jade, che inizia la serie come una specie di Lara Croft pronta a correre, saltare e menare tutti, e nel giro di 4-5 episodi, per motivi che non sto a dettagliare, diventa una ricercatrice da microscopio con il maglioncino trendy e la coda alta. Una roba di cui veramente non colgo la logica.
In termini di messa in scena, poi, se anche vogliamo essere buoni nei confronti dei soldi spesi per effetti speciali e scenografie, il tutto viene rovinato da una regia e un montaggio che sembra sempre incapace di gestire pienamente la suspense.
L’esempio più lampante, ripetuto in molti casi, sono le sequenze in cui un personaggio sta per soccombere, e tutto quello che vediamo rende logica la sua morte, ma poi il mostro di turno inspiegabilmente rallenta, o rimane sullo sfondo, consentendo all’umano di scappare “perché sì”.
Sono errori che semplicemente spezzano la tensione e danno l’impressione di un prodotto raffazzonato e zoppicante.
Infine, anche per chiudere il cerchio delle rimostranze dei fan, c’è proprio il personaggio di Albert Wesker, che non c’entra assolutamente niente con il personaggio originale dei videogiochi, in cui di fatto rappresentava uno dei principali cattivi.
Anche in questo caso bisognerebbe fare qualche distinguo, per i quali servirebbe fare troppi spoiler, ma resta il fatto che, di nuovo, Netflix mette sul piatto un nome che risuona con forza nella mente dei fan di lungo corso, appiccicandolo però a un personaggio e un attore che nulla hanno in comune con l’originale, senza nulla togliere al carisma, alla bravura e alla voce di Lance Reddick, che anzi mi sembra l’unico attore vero in questo cast non propriamente da oscar.
(peraltro Reddick è pure conosciuto e amato dalla platea dei videogiocatori, vista la sua presenza nella di Horizon, sempre per Playstation)
Insomma, un altro buco nell’acqua. Una serie che non aggiunge nulla al genere zombie, che mostra molte indecisioni tecniche e narrative, e che soprattutto lascia sospesa quella domanda che un sacco di gente si fa da un quarto di secolo: ma perché se avete avuto fin da subito la storia giusta e la giusta atmosfera, continuate a cambiarle una volta arrivati al cinema e in tv?
Ai posteri l’ardua sentenza. Anche se ormai, considerando l’età della saga, i posteri siamo già noi.
Perché seguire Resident Evil: se non sapete nulla della saga originale e cercate una storiella zombiesca con poche pretese (proprio poche però).
Perché mollare Resident Evil: è un prodotto difettoso in quasi ogni sua parte, che verrà presto dimenticato, o al massimo ricordato con frustrazione.