Pachinko – La This is Us asiatica viene dalla Corea e da Apple Tv+ di Diego Castelli
Generazioni a confronto in una storia di guerra, povertà, sogni e aspirazioni. E palline del Pachinko che nessuno sa dove finiscono.
È del tutto probabile che io abbia sbagliato diverse cose già nel titolo, perché si potrebbe questionare che una serie prodotta da Apple TV+ sia già di per sé “non asiatica”, perché il paragone con This Is Us potrebbe essere un po’ fuorviante ecc. Però con i titoli è così, ve la devo un po’ vendere, stiracchiare qualche limite, altrimenti non venite a leggere l’articolo. E ora parliamo di Pachinko.
Creata da Soo Hugh, diretta da Kogonada e Justin Chon, e basata sull’omonimo best seller della scrittrice e giornalista Min Jin Lee, Pachinko prende il nome dal noto gioco d’azzardo giapponese (che in quel paese è un po’ l’equivalente della slot machine occidentale) e racconta una storia lunga un secolo.
La protagonista (o quella che possiamo indicare come protagonista in uno show comunque abbastanza corale) è Sunja, una ragazza che nei primi decenni del Novecento si trova a vivere in una Corea facente dell’Impero Giapponese (sarà così fino al 1945), e che a fine anni Ottanta ritroviamo come madre di un uomo proprietario di una sala di pachinko e come nonna del figlio di lui, il giovane Solomon, che torna in Giappone (dove la famiglia si era trasferita tempo addietro) dopo un periodo trascorso negli Stati Uniti a diventare un rampante uomo d’affari, impiegato in una banca di investimenti immobiliari.
Nei tre episodi finora rilasciati da Apple, l’attenzione della storia si concentra soprattutto su due aspetti: la giovinezza di Sunja (interpretata nella sua versione anziana da Youn Yuh-jung, premio oscar per Minari), che perde il padre in tenera età e deve poi guadagnarsi da vivere lavorando duramente e senza istruzione in compagnia della madre; e poi le beghe di Solomon, che è guidato da una forte ambizione che rischia di fargli perdere la bussola morale e familiare che l’ha guidato fino a quel momento.
Non ha senso dirsi molto altro della trama, in primis per non fare spoiler, ma anche perché è evidente che la serie vorrà esplorare anche altri dettagli e altri piani temporali, e per avere un quadro realmente chiaro della situazione bisognerà aspettare un po’.
Né vorrei addentrarmi troppo nella questione del rapporto storico, politico e militare fra Corea e Giappone, che pur non essendo il fulcro della storia ne è certamente uno sfondo importante, sul quale non sono abbastanza preparato. Diciamo che questo è uno di quei casi in cui una serie tv, più che farci vedere un nuovo lato di una questione che conosciamo, ci introduce (noi italiani) a un tema che maneggiamo poco e che quindi può essere l’occasione per approfondire.
In questa sede, invece, mi interessa qualche altra sfumatura.
Non credo di dover spiegare più di tanto il paragone con This Is Us, in termini puramente narrativi: è il riferimento seriale più recente e facile da fare di fronte a un racconto che comprenda più generazioni di una stessa famiglia.
Naturalmente è un paragone che va preso con le pinze. Se è vero che i continui rimandi interni creano un puzzle che non è solo giustapposizione di storie diverse (in This Is Us è la stessa cosa), è altrettanto vero che non c’è la medesima, esasperata attenzione per il valore poetico ed evocativo dei rimandi interni, non c’è quindi una grammatica delle connessioni fra le epoche che diventi quasi più importante del singolo racconto di ogni epoca.
Allo stesso tempo, il peso che Pachinko dà ai suoi vari contesti storici (nello specifico, per quello che abbiamo visto finora, gli anni Venti del Novecento e la fine degli anni Ottanta) è superiore a quello concesso da This Is Us agli stessi temi.
C’è però un traguardo comune, fra le due serie, che viene raggiunto attraverso strade differenti, ma che rappresenta il cuore dell’esperienza. Parlo di un certo modo di intendere il tempo, di percepirne il peso, di raccontare la crescita dei personaggi come una crescita fisica e psicologica che impone di riflettere sul proprio passato e sul proprio presente, di fare bilanci, di contemplare le bizzarrie del destino e giudicare i modi in cui si è deciso di rispondere a quelle bizzarrie.
Pachinko è una serie abbastanza lenta (ma comunque pensata per un pubblico internazionale, quindi non così lenta) e che può sembrarci un po’ distante in termini di messa in scena, con qualche sequenza dal sapore un po’ fictionoso (che non so descrivere meglio di così, ma sappiamo cosa significa). Però è anche una serie che te lo fa sentire davvero il tempo che passa, che articola i suoi avvenimenti in modo da metterli tutti in prospettiva l’uno con l’altro, così che il quadro generale che si viene a creare non sia mai solo un elenco di luoghi e date, ma sempre e comunque un bilancio complessivo che si forma sotto i nostri occhi, tassello dopo tassello.
L’elemento linguistico è centrale: in Pachinko si parlano tre lingue diverse, ognuna con un suo preciso peso storico, politico e culturale. C’è il coreano che è la lingua originaria dei protagonisti, la lingua da proteggere e da non dimenticare, la lingua che proprio per il suo valore nostalgico può anche diventare cinico strumento di manipolazione. Poi c’è il giapponese, la lingua acquisita, la lingua dell’invasore, la lingua imposta come forma di oppressione e sostituzione culturale. E poi c’è l’inglese, che invece è la lingua di un’invasione non militare e politica, ma economica, capitalista, un’altra faccia del cambiamento che si impone ai costumi e alle tradizioni di un sistema di personaggi che si sente in continua tensione fra il passato, il presente e il futuro (emblematica, in questa direzione, la storia dell’anziana signora che non vuole lasciare la sua casa, nemmeno di fronte a offerte economiche enormi).
Quella del pachinko, un gioco di cui si parla relativamente poco in questi primi tre episodi, è soprattutto una metafora. Nel pachinko, i giocatori inseriscono delle piccole sfere in una fessura, e poi le guardano cadere in una specie di flipper verticale in cui una serie di ostacoli, paletti e barriere modificano in modo imprevedibile il percorso delle palline, lasciando al caso le tue chance di vittoria e di sconfitta.
I personaggi di Pachinko (interpretati da ottimi attori e attrici, perfino Yu-na, la bambina che interpreta Nunja da giovanissima, è brava al cubo) sono esattamente questo: piccole sfere gettate nel flipper della Storia, che vengono sballottate dai paletti e dalle barriere del destino (che possono pure essere debitamente truccati) e provano a rendersene indipendenti, a scegliere per se stessi anche quando è difficile e pericoloso, a rileggere le proprie esperienze passate per identificare gli errori e correggerli.
Siamo solo all’inizio, ma Pachinko ha le potenzialità per costruire un grande affresco capace di raccontarci un mondo che non conosciamo, ma in cui riconosceremo i tratti di un’umanità di cui, anche a migliaia di chilometri e a decenni di distanza, sentiamo di fare comunque parte.
Perché seguire Pachinko: fin dall’inizio presenta un racconto di ampio respiro, che potrebbe essere ottimo per un’esperienza davvero seriale.
Perché mollare Pachinko: la lontananza da noi (in termini culturali e seriali) rappresenta un ovvio motivo di difficoltà in più.