28 Settembre 2021

Foundation – La fantascienza di Apple e Asimov, fra ambizioni e tradimento di Diego Castelli

Foundation porta nella serialità televisiva la mitica saga di Isaac Asimov, alla ricerca di un equilibrio fra nostalgia e ambizioni moderne

Pilot

Era una delle serie più attese dell’anno, anche se, per certi versi, potremmo dire del ventennio.
Si perché di una trasposizione filmica e/o seriale del Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov, caposaldo della fantascienza Occidentale iniziata negli anni Cinquanta con una prima, famosissima trilogia, e portata a definitivo compimenti solo a inizio anni Novanta, si parla ormai da tantissimo tempo. Si pensi che un adattamento cinematografico era già stato messo in produzione dalla New Line Cinema, che però abbandonò poi il progetto per dedicarsi a un’altra trasposizione letteraria che purtroppo per loro non ebbe alcun successo di critica e pubblico (cartello sarcasmo): la trilogia de Il Signore degli Anelli.
Si è dovuto aspettare altri vent’anni prima che Apple, nel tentativo di dare un’ulteriore spinta alla sua piattaforma i streaming già comunque ben avviata, affidasse a David S. Goyer (sceneggiatore e produttore dalla carriera altalenante, ma comunque scrittore della trilogia di Blade, del primo Batman di Nolan e dei primi due Superman di Zack Snyder) il compito di tentare l’impossibile, portare cioè sul piccolo schermo un’opera ormai leggendaria, di quelle che spesso, per una casa di produzione, propongono quasi più rischi che opportunità, riassumibili nel più classico dei “come fai, sbagli”.

Ora, voi sapete che qui a Serial Minds preferiamo non giudicare una serie tv sulla base del materiale letterario da cui è tratta, perché ci sembra irrispettoso nei confronti della stessa forma seriale. Non lo faremo neanche questa volta, pur sapendo che a quella regola potrebbero pure esserci le proverbiali eccezioni, e che un’opera come la trilogia della Fondazione di Asimov potrebbe benissimo candidarsi ad esserlo.
Ma se anche non prendiamo la matrice letteraria, così famosa e amata, come metro di giudizio per la serie tv, vale comunque la pena darne due-dettagli-due che servano più che altro a comprendere il tipo di sfida affrontata da Apple.
Sì perché il Ciclo delle Fondazioni non è solo una delle opere più famose di uno dei grandi padri della fantascienza moderna, ma ne è anche una sorta di manifesto artistico. Nel raccontare la storia di un grande Impero Galattico che decade – e di un uomo che riesce, usando una scienza matematica chiamata psicostoria, a prevedere quella decadenza e a ipotizzare un modo per ridurne i devastanti effetti – Asimov sceglie un approccio che caratterizza praticamente tutta la sua carriera, e che si allontana da qualunque forma di facile epica.
Il Ciclo delle Fondazioni, che soprattutto all’inizio è composto da una serie di storie e racconti che narrano di protagonisti diversi in momenti diversi della storia, ma tutti legati all’antica profezia matematica del mitico Hari Seldon, è infatti intriso di razionalità, di metodo, perfino di freddezza, a uno sguardo superficiale (ma solo superficiale). È una saga che descrive un mondo, anzi un universo, e ne racconta l’evoluzione in modo preciso e circostanziato, ma che ogni volta che si avvicina a momenti potenzialmente più dinamici, che magari sarebbero diventati il cuore pulsante di una letteratura più contemporanea, fa partire un’ellissi che ci porta ad altri momenti più riflessivi.
Che noia, direte voi, e magari per qualcuno è effettivamente così, e non c’è niente di male. Ma non consideriamolo un “errore”. Asimov era convinto che la dispiegazione su carta delle sue capacità logiche, della sua intelligenza, e della sua capacità di creare mondi giganteschi che portassero i lettori a ragionare su se stessi, sull’umanità, sulle regole che ne muovono i sogni, i desideri e le ambizioni, fosse sufficiente a intrattenere anche senza bisogno di artifici retorici più spicci.
E se guardiamo al successo del Ciclo, così come delle altre opere di Asimov (a cominciare dalle sue storie sui robot), non si può negare che evidentemente aveva ragione lui. Quello che l’autore russo naturalizzato americano fece, fu presentare al suo pubblico una fantascienza che fosse fantascienza e basta, non fantascienza e thriller, o fantascienza e azione, o chissà cos’altro. E fu sufficiente a farlo un Autore immortale.

Qui però arriviamo alla serie tv del 2021. Perché ok, negli anni Cinquanta Asimov sceglie uno stile abbastanza particolare, ma che si adattava bene alla forma letteraria e al periodo storico in cui l’opera era stata prodotta. Bene, bravo, genio.
Ora però siamo nel 2021, è cambiata la forma espressiva ed è cambiato il mondo tutto intorno. Era dunque possibile pensare di replicare quello stile in forma audiovisiva, con lo stesso rischio di allora, che cioè potesse risultare freddo, distacco e troppo minimal, a fronte di una grandiosità che sulla pagina si percepisce, ma che sullo schermo sarebbe potuta essere più difficile da veicolare?
Chissà, è possibile, d’altronde anche una serie come Mad Men è riuscita a ottenere grande successo senza concedere troppo alla concitazione e all’epica hollywoodiana.
Per ora, tuttavia, non lo sapremo, perché la strada scelta da Apple è stata in buona parte diversa: Foundation è infatti una serie molto ambiziosa, di ampio respiro, ad altissimo budget, che fin dai primi trailer ha mostrato la volontà di avere sul pubblico una presa prima di tutto emotiva, sensoriale, istintiva. Una scelta completamente legittima e forse inevitabile, ma che di fatto è opposta all’approccio di Asimov (anche se, lo vedremo fra poco, questa affermazione potrebbe essere troppo netta).

E sul confronto la chiudiamo qui, o quasi. Per lo meno nel senso di un possibile giudizio sulla base dello scostamento rispetto all’originale.
Perché la Foundation di Apple di cose da dire ne ha parecchie. Il mitico Hari Seldon è interpretato da un attore di grande carisma come Jared Harris (perfetto per il ruolo, a mio giudizio), mentre Lee Pace (che noi amiamo dai tempi di Halt and Catch Fire) interpreta Brother Day, aka Cleon XII, uno dei cloni del defunto imperatore Cleon I, che per mantenere intatta la sua dinastia non si è affidato a veri e propri discendenti (che roba medievale, tsé), bensì a suoi cloni che di generazione in generazione si sostituiscono uno all’altro, di fatto garantendo all’Impero sempre la stessa guida, geneticamente parlando.
A questi personaggi, per ora, vanno aggiunti anche Gaal Dornick, giovane prodigio della matematica che diventa una sorta di erede di Seldon, e Salvor Hardin, che abita sul pianeta Terminus (il luogo dove Seldon progetta di costruire la famosa Fondazione che dovrebbe aiutare a contenere i danni del declino dell’Impero). Entrambi questi personaggi hanno subito un cambio di genere fra pagina e serie tv, partendo uomini presumibilmente e diventano donne non bianche (un’operazione-inclusività a cui ormai siamo abituati, ma che in questo caso resta abbastanza irrilevante ai fini dell’analisi della serie).

Questi personaggi, come detto, si muovono su uno sfondo le cui coordinate sono state cambiate e aggiornate al presente, ma forse più che di cambiamento dovremmo parlare di integrazione. Quello che Foundation sembra voler fare, almeno a giudicare dai primi due episodi, è un’operazione di arricchimento del materiale originale tale per cui non si rinuncia all’elemento logico, ai dialoghi densi, alla descrizione anche abbastanza dettagliata dei mondi della storia. Solo che a questi elementi si aggiunge anche tutto quello a cui Asimov volutamente rinunciava in tutto o in parte, lasciando che i lettori lo immaginassero da soli: i grandi scorci planetari (il livello è da cinema, e da cinema di livello, senza paura di sbagliare), le straordinarie tecnologie (bellissime le astronavi dotate di buco nero personale, così da muoversi per enormi distanze creando dei wormhole personali), la guerra e le esplosioni, il sangue e la paura, le passioni individuali che nella trilogia cartacea si diluivano nella prospettiva storica (con un effetto straniante ma di grande impatto) e che qui invece trovano una sorta di riscatto narrativo.
L’operazione, sia ben chiaro, è tutt’altro che semplice, perché si tratta di trovare un equilibrio fra un’ispirazione di immenso prestigio, ma dall’anima profondamente anti-televisiva, e un approccio spettacolare commercialmente inevitabile, ma che di quell’antico prestigio e fascinazione ha tuttora bisogno, perché altrimenti, molto semplicemente, non sarebbe il Ciclo delle Fondazioni.

È davvero troppo presto per dare giudizi definitivi, ma i primi due episodi fanno vedere buone cose. Abbiamo avuto l’impressione di essere davanti a un’epopea potenzialmente molto vasta, in cui le magie della moderna tecnologia visiva non sono messe al servizio di un banale Star Wars (dico banale nel senso del già visto), bensì di una grandiosità che abbia un sapore realmente millenario, perché di questo stiamo parlando: di un grande Impero Galattico che governa da secoli, e che a un certo punto cade nel caos mentre un manipolo di scienziati prova a tenere in mano le briglia dell’umana civiltà.
E se pensiamo che Asimov si ispirò molto, per la sua opera, al crollo dell’Impero Romano (come era stata raccontata in Storia del declino e della caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon), ecco che la serie riesce a dipingere bene i contorni insieme giganteschi e fragili di un’organizzazione politica giunta all’ipertrofia e guidata da cloni dalla grande intelligenza, ma ormai privi di reale empatia.
Questi sono gli elementi d’atmosfera e di contesto in cui l’eredità di Asimov si fa sentire meglio, e che non vengono sporcati dall’aggiunta di dettagli più spettacolari dal punto di vista cinematografico.

Quello che invece, o paradossalmente, ci impone cautela, è il fatto che per certi versi l’aderenza al modello originale potrebbe rivelarsi un freno. Goyer ha dichiarato che Foundation è una partita a scacchi della durata di mille anni fra Seldon e l’Impero, una definizione molto affascinante che però nasconde pure un rischio: non è detto che una partita a scacchi della durata di mille anni sia una cosa che ci piace vedere in una serie tv.
In questo senso, i primi due episodi prendono sì una strada diversa dall’originale, ma in nome del famoso equilibrio non vogliono nemmeno privarsi di un po’ del suo raziocinio, elemento comune all’originale letterario, che però sapeva stemperarlo sia con la natura “inevitabilmente emozionante” di un racconto secolare, sia con l’innesto di parentesi molto umane, se non addirittura buffe, nel dispiegarsi della sua grande saga. Ecco, per ora Foundation è sembrata orgogliosamente monumentale, granitica, imponente, ma nella sua pretesa totalizzante potrebbe pure diventare pomposa, il che sarebbe un paradosso, visto che invece la scrittura di Asimov non lo è mai. (Curiosamente, è la stessa cosa che si potrebbe dire del Dune di Denis Villeneuve, anche in quel caso proveniente da un’opera letteraria altrettanto importante, benché diversa come impostazione)
Insomma, fra tradimento dell’originale, evidente e dichiarato, e contemporaneo tentativo, altrettanto evidente, di non tradirlo troppo (qualunque cosa voglia dire), si trovano tutte le potenzialità e i rischi di una serie che resta potenzialmente validissima.
(È comunque un inizio pieno di qualità, ed è una serie che merita fiducia per il semplice fatto di aver affrontato con così tanta abnegazione e così ampio dispiego di mezzi, una patata bollente di quelle proporzioni.

In ultimo, una riflessione che, se avete ascoltato il nostro podcast uscito ieri, mi avete già sentito fare.
È evidente che Apple spera che Foundation diventi “the next big thing”, la prossima “cosa grossa” che manca dalla fine di Game of Thrones. No, Ted Lasso la amiamo alla follia, ma non è la nuova cosa grossa, dai che avete capita cosa intendo.
Ecco, anche in questo caso il giudizio è veramente troppo prematuro, ma se dovessi spendere due euro con il concreto rischio di perderli, vi direi che Foundation non sarà la nuova Game of Thrones. In parte per motivi produttivi e distributivi (Apple tv+ non è ancora HBO e non è nemmeno Netflix, sta usando Foundation per attirare nuovi adepti, ma quelli che ha al momento non sono ancora abbastanza per un’imposizione culturale di quel tipo), e in parte per motivi intrinseci: Foundation, che pure, come abbiamo detto, vuole essere molto più sanguigna dell’originale, parte comunque da una fantascienza estremamente razionale e metodica, la cui influenza forse le impedirà di diventare un prodotto capace di prendere le masse per le viscere. Un intrattenimento ancora molto intellettuale, dunque, che potrebbe anche essere tremendamente soddisfacente, ma lontano da fenomeni seriali mondiali alla Game of Thrones in cui sangue, odio e passione hanno un’importanza più spiccata. Chissà che invece la prossima cosa grossa non arrivi da uno degli altri progettoni che stiamo attendendo da tempo, dal The Last of Us di HBO al Signore degli Anelli di Prime Video.
Ma potrei sbagliare completamente sia in un senso che nell’altro, quindi aspettiamo e vediamo.

Perché seguire Foundation: è una serie di enorme ambizione, grandi mezzi, ottimo cast, che parte da una saga letteraria fra le più importanti del Novecento. Si segue perché sì, anche solo per poterla bocciare.
Perché mollare Foundation: è fantascienza dura e pura, con poche concessioni all’alleggerimento. La si guarda se si ha voglia di impegnarcisi almeno un po’.



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