Solos – Il simil-Black Mirror di Prime Video ci lascia delusi di Diego Castelli
I primi (e forse ultimi) sette episodi di Solos ci hanno lasciato addosso sensazioni contrastanti, ma a conti fatti siamo rimasti freddini
Che poi suppongo che a quelli di Amazon non piacerebbe sentir descrivere la loro ultima serie come la copia di un’altra, e sicuramente avrebbero più di un’argomentazione per dirvi che il titolo che ho scelto serve soprattutto ad attirare clic, che io sono una brutta persona, ecc ecc.
Il problema però è che Solos, creata da David Weil, fin dal suo esordio come “notizia” e come “trailer” sembrava chiedere a gran voce un qualche tipo di etichetta, che però si faceva proprio fatica a trovare.
A ben guardare è stata proprio questa indecisione, che forse per gli autori doveva essere motivo di mistero e curiosità, a farci alzare subito un sopracciglio. Certo, quando dici che la tua prossima miniserie antologica avrà nel cast Morgan Freeman, Anne Hathaway, Helen Mirren, Uzo Aduba, Anthony Mackie, Constance Wu, Dan Stevens e Nicole Beharie, è pacifico che te la guardo. Cioè, ti piace vincere facile. Allo stesso tempo, però, su internet giravano descrizioni tipo “La serie antologica in sette episodi esplora le strane, bellissime, struggenti, divertenti, straordinarie verità di cosa significhi essere umani. La serie è ambientata nel nostro presente e nel futuro e sottolinea come, anche nei momenti in cui ci sentiamo più soli, siamo in realtà tutti connessi attraverso l’esperienza umana. Queste storie incentrate sui personaggi portano avanti l’idea che anche durante i nostri apparenti momenti di solitudine, anche nelle circostanze più disperate, siamo tutti connessi attraverso l’esperienza umana.”
Non sentite anche voi uno straordinario profumo di supercazzola? O di Sense8, che è un po’ la stessa cosa?
Bene, alla fine Solos è arrivata anche da noi e ci siamo chiariti definitivamente le idee su cosa fosse, per lo meno in termini strutturali: sette episodi autoconclusivi, di ispirazione tendenzialmente fantascientifica, e caratterizzati dal fatto di essere quasi sempre monologhi o poco più (al massimo dialoghi a due, oppure fra versioni diverse dello stesso sé). Sono episodi che esplorano la condizione umana a partire da premesse molto diverse fra loro – una donna che cerca di connettersi con la se stessa del futuro per parlare della madre morente; un uomo che si è fatto costruire un mezzo clone per stare vicino alla famiglia quando lui, malato, non ci sarà più; una donna anziana che si presta volontaria per viaggio senza ritorno nel cosmo; un’altra che partorisce un bambino che diventa adulto nel giro di un giorno; e altre storie simili – e che trovano la somiglianza con Black Mirror un po’ nel genere e nella forma antologica, e un po’ per una certa attenzione all’ibridazione tecnologica che ci concede grandi possibilità, ma anche inquietanti rovesci della medaglia.
Tutto bene dunque, se non fosse che un certo sapore di supercazzola rimane lo stesso.
È una sensazione strana: ho visto la serie ormai qualche settimana fa, mi sono preso degli appunti, ricordo bene le sensazioni che mi ha dato, ma ora che rileggo quello che mi ero scritto mi rendo conto che le storie raccontate erano effettivamente interessanti. Cioè, non era una fantascienza “pigra”, dal punto di vista puramente creativo, e anzi metteva in gioco temi che ci interessano nel nostro quotidiano di inizio Ventunesimo secolo.
Per esempio “Sasha”, l’episodio con protagonista Uzo Aduba, parla di una donna rimasta chiusa per anni in un appartamento ipertecnologico che serviva a proteggerla da una pandemia, ma da cui ora lei non vuole più uscire. Si tratta probabilmente dell’episodio più smaccatamente ispirato da fatti reali e concreti della nostra vita recente, ma non è banale l’idea di esplorare un futuro in cui le mura domestiche non sono solo rifugio, ma anche gabbia esistenziale che ci siamo auto-imposti.
L’ultimo episodio, “Stuart”, con Morgan Freeman e Dan Stevens, racconta di una tecnologia per ridare la memoria ai malati di demenza senile, e nello scoprire il sorprendente passato del protagonista pone questioni interessanti in riferimento al ruolo della memoria nella definizione del carattere ma anche delle colpe di una persona.
Il pilot, “Leah”, con Anne Hathaway, parte come curiosa e articolata esplorazione temporale, e diventa occasione per la protagonista (e noi con lei) di sondare alcuni angoli bui della nostra umanità e del nostro modo di stare al mondo.
Si potrebbero fare ragionamenti simili anche sugli altri episodi, ed effettivamente, prese tutte insieme, le puntate sembrano ricostruire un’umanità che rimane invariabilmente tale (specialmente nei suoi difetti e fragilità) anche quando attorno c’è un mondo che, paradossalmente grazie al lavoro della nostra specie, continua a muoversi in avanti, con ritmi che il singolo essere umano spesso fatica a reggere.
In pratica, la solitudine raccontata da Solos non è semplicemente quella artistica degli attori e attrici sulla scena, ma anche quella esistenziale di esseri umani sempre più in difficoltà nello stare al passo con un mondo che cambia troppo in fretta, molto più rapidamente della normale evoluzione della nostra specie, che quindi rimane inevitabilmente fregata e deve adattarsi come può a un cambiamento a volte incomprensibile.
Ma quindi aspetta. Ragionandone ora a mente fretta, e trovando i motivi per cui tutti i pezzi (solitari) di Solos si incastrano in un puzzle che ha effettivamente senso, sono arrivato a scoprire che in realtà mi è piaciuta?
Caspita, sarebbe un bel twist.
Il problema è che, proprio come i protagonisti della serie non possono cogliere con pienezza emotiva quello che (forse) riescono a capire solo in termini intellettuali, così io non posso non citare l’emozione prevalente provata guardando i sette episodi di Solos: la noia, di fatto senza eccezioni.
Se però la materia tematica c’era, e a quanto pare pure lo sviluppo narrativo, il problema va cercato altrove, e credo stia in una sostanziale arroganza: avendo in mente una forma di messa in scena abbastanza ardita, diciamo “non semplice”, Weil ha dato per scontato che la bravura e anche la fama dei suoi protagonisti bastasse a reggere il peso di sette quasi-monologhi.
A conti fatti, però, la pesantezza di questa scelta si fa sentire abbastanza presto.
Forse l’esempio più lampante è proprio l’episodio che ho preferito, ossia “Peg”, con Helen Mirren.
Raccontando la storia di una donna ormai avanti con l’età, che decide di imbarcarsi in una missione spaziale in solitaria e dichiaratamente senza ritorno, con la sola compagnia di un’intelligenza artificiale che sarà anche più evoluta di Alexa, ma comunque non trasmette tutto sto gran calore umano, “Peg” ha effettivamente tutti i più validi motivi narrativi per offrirci un sostanziale one woman show. E bisogna pure dire che il percorso compiuto dalla sua protagonista verso una maggiore consapevolezza del suo passato, ora che il suo futuro è così irrimediabilmente segnato da scelte solo sue, ha certamente un che di struggente, che lascia qualcosa dopo la visione (altri episodi della serie lasciano meno).
Eppure anche questo episodio così centrato e tenero, con una protagonista così talentuosa, richiede uno sforzo non indifferente per arrivare alla fine, perché è comunque una tizia che parla da sola per mezz’ora.
L’impressione è che Solos, volendo fare qualcosa di originale (missione compiuta, in teoria), abbia finito con lo sconfinare in territori che sono più propri della letteratura, del teatro e in certa parte del cinema, mentre se parliamo di serie tv, anche brevi e antologiche come in questo caso, una messa in scena così verbosa, così statica e solitaria, diventa facilmente insostenibile, a meno di una passione davvero forte per il genere e i temi trattati.
Da un parte potremmo dire che beh dai, almeno uno spessore c’era. Dall’altra, vedere sprecato quello spessore con una messa in scena troppo difficile, acuisce la delusione.
Com’è, come non è, di una possibile seconda stagione non ci frega già più niente.
Perché seguire Solos: un grande cast e un impianto narrativo solido.
Perché mollare Solos: le specifiche scelte di messa in scena la rendono una serie pesante e spesso noiosa.