Master of None – E anche la terza stagione è un gioiellino di Diego Castelli
Con Aziz Ansari dietro la macchina da presa più che davanti il risultato non cambia: Master of None si conferma una perla
ATTENZIONE: SPOILER SULLA TERZA STAGIONE DI MASTER OF NONE. TANTO SE SIETE FAN L’AVETE GIA’ VISTA DAI.
Quasi sei anni, solo tre stagioni, soltanto venticinque episodi complessivi.
Poco, pochissimo, eppure abbastanza perché Aziz Ansari, che all’epoca conoscevamo solo come il buffissimo Tom di Parks and Recreation, facesse vedere al mondo che nella sua testa di comico c’era un autore vero, sensibile, con un insospettabile e delizioso gusto retrò, che in tre stagioni di Master of None si è sviluppato progressivamente, fino a costruire uno degli show (web)televisivi più particolari e riconoscibili di questi anni.
La terza stagione di Master of None è arrivata su Netflix la scorsa domenica, e per la prima volta ha visto Ansari nascondersi dietro la macchina da presa, lasciando gran parte della scena (a parte un paio di sequenze) alla sua co-autrice Lena Waithe, protagonista insieme a Naomi Ackie di una stagione dal titolo “Moments in Love”.
Qualche anno dopo la seconda stagione, ritroviamo Denise impegnata in una nuova carriera di scrittrice: ha dato alle stampe un romanzo che ha funzionato molto bene e ora vive in una casetta di campagna insieme alla moglie Alicia. I “momenti d’amore” del titolo non sono altro che l’evoluzione di quella storia, attraverso specifici passaggi legati soprattutto al desiderio di maternità di Alicia: dopo un primo tentativo fallito di fare un bambino con un donatore loro amico, Denise e Alicia vedono incrinarsi il loro rapporto, che si scopre fragile di fronte al dolore della perdita. Rotta la relazione, Alicia decide di diventare madre da sola, e ci riesce al termine di un percorso lungo, costoso ed emotivamente provante, tutto raccontato nel quarto episodio. A questo punto, passati altri anni, le due possono ritrovarsi, ormai entrambe madri e impegnate in altre relazioni, pronte a diventare… amanti, come se la loto storia non fosse mai finita, ma avesse bisogno di trovare un equilibrio diverso dal precedente.
Questa, in poche righe, l’ossatura narrativa di questa terza stagione, che però di per sé non dice nulla sul suo valore artistico.
Da questo punto di vista, dobbiamo guardare a come Aziz Ansari sceglie di mettere in scena la storia, e al modo in cui gioca con il tempo, focalizzandosi su alcuni momenti precisi e lasciando che in mezzo la vicenda scorra più veloce, lasciando visibili solo alcuni punti-chiave che ci permettono comunque di capire perfettamente tutto.
In termini visivi, Ansari prosegue il percorso estremamente europeo che già aveva caratterizzato la seconda stagione (che anzi omaggiava proprio il cinema italiano).
Girata tutta in 4:3, composta quasi solo da inquadrature fisse con pochissimi movimenti di macchina (o forse addirittura nessuno, ora che ne sto scrivendo non ne ricordo neanche uno), la terza stagione di Master of None è una collezione di quadri, di singole cornici all’interno delle quali i personaggi si muovono e interagiscono, costruendo una storia apparentemente banale, ma che esplora all’interno delle dinamiche di coppia, delle frustrazioni lavorative, dellee aspirazioni personali, riuscendo contemporaneamente a scavare in profondità, senza per questo emettere giudizi.
La scelta di ambientare quasi tutta la stagione in una casetta di campagna non pare casuale: se è vero che i cinque episodi raccontano la necessità di un percorso, personale e di coppia, che porta due persone a scoprire un equilibrio diverso da quello che credevano essere l’ideale per loro, il rifugio nella casetta isolata dal mondo diventa il perfetto simbolo di una scelta dettata non da una ricerca di sé, ma dall’adesione a uno stereotipo.
In pratica, dopo essere diventata una scrittrice famosa, Denise decide che deve fare la vita… da scrittrice famosa, quindi scomparire in un bucolico ritiro che in teoria dovrebbe essere fonte di illimitata gioia familiare e placida ispirazione letteraria.
Così non accade, un po’ perché vanno in un posto freddissimo e piuttosto grigio che fa venire subito voglia di un bel centro commerciale, ma soprattutto perché la stessa arte di Denise, che viveva dell’immersione nella vita reale e nell’umanità, tirata fuori da quel contesto inaridisce in fretta.
Lo stesso desiderio di maternità di Alicia, che pure è sincero e perseguito poi con grande sforzo, sembra nascere da una frustrazione, un sentirsi poco più di un oggetto di scena nella vita di una scrittrice che si bea di essere più importante di tutti gli altri.
La casetta di campagna diventa allora una gabbia, sia per le ambizioni artistiche di Denise, sia per la semplice voglia di vivere di Alicia, tanto che l’inizio della crisi arriva già alla fine del primo episodio, che in un montaggio veloce e pressoché muto, ma non privo di emozioni, ci racconta della perdita del bambino e della difficoltà ad affrontare insieme il lutto.
Il secondo e il terzo episodio servono per dare corpo alla crisi, per tirare fuori gli scheletri dall’armadio, per comprendere i reciproci problemi e incomprensioni, fino a rendersi conto di non poter più stare insieme.
Come detto, non ci sono giudizi: per quanto la storia fra queste due donne sia mostrata nell’ottica solitamente maschio-femmina di una personalità dominante (anche professionalmente) e di un’altra a cui sta stretto il ruolo subalterno, Denise non ne esce necessariamente come “quella cattiva e insensibile”. Il tema è proprio quello di un percorso da compiere, e che queste due persone non riescono a compiere insieme, almeno per quel tratto.
Il quarto episodio, che è poi quello più carico da un punto di vista emotivo, è tutto concentrato su Alicia e racconta di una riappropriazione di sé. La storia sua e del suo faticoso tentativo di avere un bambino è non solo uno spaccato molto realistico dello stress che una donna deve a volte sopportare per diventare madre (ed è un episodio che zittisce con forza tutti quelli che, solitamente uomini o donne diventate madri con facilità, si permettono di pontificare su chi decide di intraprendere un percorso di questo tipo), ma come detto è soprattutto una sfida che Alicia pone al mondo nel tentativo di riappropriarsi della sua vita, della sua identità, del suo futuro.
Detta così sembra un po’ meccanica, come se il bambino (anzi, poi sarà una bambina) fosse uno strumento di una rinascita personale. In realtà non è così, non percepiamo “egoismo” nella scelta di Alicia, però certamente la serie ci mostra un incaponimento che è anche personale, intimo, una sfida con se stesse e con il destino, alla ricerca di una felicità che fino a quel momento è mancata quasi senza colpa di nessuno, ma solo perché le cose erano andate così.
Il quinto episodio è quello che chiude il cerchio di tutto, e in cui Denise e Alicia fanno ritorno alla casa in campagna con un nuovo spirito: Alicia ha una figlia ed è anche riuscita ad aprire il suo negozio di antiquariato, mentre Denise si è costruita una famiglia sua, anche se non è riuscita a ritrovare il successo, cosa che al momento le pesa parecchio, perché è costretta a fare un lavoro da impiegata che, in confronto a prima, è come finire all’inferno dopo aver conosciuto il paradiso (parole sue).
Il cerchio si chiude perché, come detto, le due donne diventano amanti, trovando un equilibrio nuovo e diverso dal precedente, ma finalmente funzionale soprattutto perché le lascia in una condizione di assoluta parità. I figli non li abbiamo neanche visti, così come il negozio e altri luoghi che non siano la casetta e pochi altri luoghi della vita di Alicia, durante il quarto episodio. Tutto quello che ci serve sapere di questa coppia, di queste due persone e del loro percorso di vita, nasce in un unico posto, che nella sua staticità e insieme mutevolezza (fra il prima e il dopo la casa cambia di proprietà e viene modificato tutto l’arredamento) diventa simbolo di tutti i temi messi sul piatto dalla sceneggiatura.
Tutto è bene quel finisce bene, dunque? Non esattamente. Al termine della storia c’è una nota amara: Denise e Alicia sono insieme a letto e riconoscono quanto sia bello potersi vedere in questo modo, riuscendo ad abbassare la guardia rispetto alla vita di tutti i giorni. “Tutto è meraviglioso”, arrivano a dire, ma i loro sguardi tradiscono il fatto che tutto meraviglioso non è. Cos’è che non torna? Non ci viene detto esplicitamente. Forse il rimpianto per non essere riuscite a stare unite, forse la consapevolezza del fatto che, se insieme possono abbassare la guardia, è perché c’è effettivamente una guardia da abbassare, come se non ci fosse permesso di essere sempre noi stessi, nella vita.
È insomma un percorso complesso, accidentato, che trova una chiusura ma in realtà non finisce, a simboleggiare realisticamente un’esistenza che è fatta da continui equilibri e crisi, più che da un periodo di difficoltà seguito dal classico “e vissero felici e contenti”.
E chissà che in questa visione malinconica, problematica, non del tutto risolta, non abbiano contribuito le vicende più recenti di Ansari, quell’accusa di molestie intorno alla quale il regista ha chiarito pienamente la sua posizione, ma che forse ha lasciato strascichi nella sua percezione del mondo e nella sua stessa carriera, tanto che alcuni hanno letto nella sua scarsa presenza sulla scena in questa stagione una precisa necessità (chissà se personale o eterodiretta) di essere meno visibile.
Quello che a noi rimane è un’altra stagione di rara sensibilità e di gusto particolarissimo, che all’inizio può essere un po’ ostica (la lentezza è certamente una delle cifre di questi episodi, piaccia o no), ma che ora della fine ci restituisce il senso di un percorso completo, in cui abbiamo imparato delle cose, e che con grande delicatezza e sobrietà ha raccontato cose vere, sanguigne, che riguardano la vita di tutti noi.
E bravo Aziz.