Ethos – Netflix: un raffinato gioco di specchi di Marco Villa
Produzione originale Netflix turca, Ethos è una serie di spessore che parla delle contraddizioni della Turchia contemporanea
Non è facile parlare di Ethos, perché è una serie che richiede un minimo di conoscenza del contesto della Turchia contemporanea, argomento tutt’altro che sulla bocca di tutti. Beninteso: noi ci mettiamo nella maggioranza di chi poco sa a riguardo, al di là dell’infarinatura generale sulla figura di Erdogan e sulla sua politica. Dicevamo: è difficile parlarne senza essere dentro quel mondo, ma Ethos è al tempo stesso anche la strada per provare ad addentrarsi nelle contraddizioni di un Paese che, da sempre, è sospeso tra Europa e un vero e proprio limbo storico e geopolitico.
Ethos è disponibile su Netflix da novembre, ci era stata segnalata anche dall’ottimo Mattia Carzaniga nel contributo che ci aveva regalato per il post natalizio di Serial Minds & Friends e finalmente arriviamo anche noi a parlarne. Ethos è innanzitutto una storia di donne, divise da forti differenze sociali e culturali. Il motore di tutta la serie è il personaggio di Meryem (Öykü Karayel, interprete magnetica), una ragazza che vive nelle campagne fuori Istanbul, in un ambiente fortemente connotato da tradizione e religione, uno di quei luoghi in cui l’ultima parola su tutto spetta sempre all’esponente religioso (chiamato con il titolo di hodja) e in generale sono gli uomini a decidere del destino delle donne della propria famiglia.
Vittima di strani svenimenti, Meryem si ritrova in un tunnel di esami clinici, che alla fine la portano anche nello studio di una psicoanalista, Peri (Defne Kayalar). Le due donne sono diversissime: la prima porta il velo e subisce le decisioni altrui, la seconda è fieramente laica e rivendica con orgoglio la propria libertà. Buona parte del primo episodio è occupato proprio dalla seduta di analisi di Meryem, cui fa da contraltare la seduta in cui Peri diventa cliente della collega Gulbin (Tülin Özen), secondo lo schema classico per cui gli analisti non smettono mai di fare analisi su se stessi.
Adesso perdonate la descrizione rapida di quanto accade (con piccoli spoiler sul solo primo episodio), ma è il modo più semplice per spiegare il funzionamento di Ethos: Meryem va alla seduta da Peri, che è quasi infastidita dall’atteggiamento e dall’impostazione mentale della cliente, esemplificato dal velo. Peri va a sua volta da un’analista, con la quale si lamenta a lungo di quanto ha dovuto sentire e del fastidio provato alla visa del velo, fino a scoprire che la sorella dell’analista porta a sua volta il velo. Nel frattempo, dopo aver visto Meryem svenire in una bella dimora in cui lavora come colf, scopriamo nel finale che è la casa in cui vive l’amante dell’analista Gulbin. Nel giro di 50 minuti, abbiamo un gioco di scrittura non da poco, che è un mezzo virtuosismo di sceneggiatura, ma che è soprattutto il segnale di come Ethos voglia giocare con rimandi e incastri, per sottolineare quelle contraddizioni di cui si parlava in apertura e soprattutto il fatto che, per quanto diverse, le tre donne appartengono allo stesso piccolo mondo.
Quello raccontato dalla serie è un microcosmo in apparenza stabile, che viene però scosso proprio dalla presenza di Meryem, che è lo snodo di tutte le vicende messe in scena. Del legame tra le donne si è detto, manca un piccolo accenno agli uomini: relegati sullo sfondo della narrazione, ma drammaticamente in primo piano in quanto a potere decisionale, rappresentano la necessaria controparte a tutto ciò che viene raccontato. Che si tratti dell’impostazione reazionaria dell’hodja, della prevaricazione violenta del fratello di Meryem o del quasi nichilismo del già citato amante, sono figure di cui le tre donne (quattro, se si aggiunge la sorella di Meryem) farebbero volentieri a meno, ma da cui non possono in realtà prescindere.
Quello di Ethos è un racconto che parla di un cambiamento sospeso, di qualcosa che sta succedendo qui e ora e che è necessario analizzare da tutte le angolazioni possibili. E allora quelle angolazioni la serie le mette a disposizione: non c’è un punto di vista unico e centrale, ma tante prospettive che si incrociano tra loro secondo quello che – abusata metafora – è un gioco di specchi. Un gioco di specchi raccontato con i toni e i tempi del classico film da festival (i campi larghi che aprono il pilot sono un marchio di fabbrica), in cui lunghi dialoghi senza movimento si alternano a sequenze mute che calano i personaggi nei rispettivi contesti. Ethos non è una serie semplice, per i motivi detti all’inizio, ma anche per il ritmo estremamente lento scelto dall’autore e regista Berkun Oya. È però una serie affascinante, con tanti livelli di lettura e spunti di riflessione pesanti come macigni, che non si nega mai la leggerezza (si fa per dire) di un cliffhanger messo al punto giusto.
Perché guardare Ethos: perché è una serie di peso e di alto livello
Perché mollare Ethos: perché il taglio autorale è MOLTO autorale