15 Gennaio 2021

Call Me Kat – Una serie contemporanea come una pittura rupestre di Marco Villa

Poco più di dieci anni fa, una serie come Call Me Kat sarebbe stata la norma: oggi ci sembra contemporanea come le pitture rupestri

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Tra i tanti cambiamenti che la serialità ha affrontato nel corso degli ultimi dieci anni, il primo che viene in mente è probabilmente quello legato alle piattaforme di streaming, con tutte le novità che si sono portate dietro. Poi si può citare il numero sempre più alto di produzioni e il loro budget. Ma c’è anche un altro grande cambiamento, che è quasi passato in sordina, come se fosse un fenomeno naturale, ma che di fatto ha posto fine a una tradizione che accompagnava da sempre le serie comedy. Nell’arco di un decennio o poco più, le sitcom multicamera sono andate incontro a un processo di sostanziale estinzione: prima erano la regola, ora sono le eccezioni. In certi casi riescono ancora a raccogliere consensi da alcuni (non noi, sorry) come One Day At A Time di Netflix, ma in generale sembrano davvero reperti di un’epoca passata. Così, quando nella lista delle nuove serie di gennaio ci siamo ritrovati una sitcom multicamera chiamata Call Me Kat siamo stati presi da un po’ di sconforto, che durante la visione è dilagato fuoriuscendo dagli argini.

Con ordine: Call Me Kat è una serie in onda su Fox dal 3 gennaio, adattamento USA della sitcom inglese Miranda, che ha esordito – e non è un caso – oltre dieci anni fa su BBC One. La Kat del titolo è interpretata da Mayim Bialik, che ha una lunga esperienza nel campo della multicamera, visto che è stata per anni Amy Farrah Fawler in The Big Bang Theory. Kat è una donna single di 39 anni del Kentucky, che gestisce uno di quei locali in cui i clienti possono giocare con dei gatti, insomma un cat café: capito che brillante gioco di parole con il titolo? Lei è contenta della sua vita, ma ha comunque il tarlo di voler trovare un compagno e la serie la mostrerà alle prese con i suoi colleghi di lavoro, in particolare Pem Pem Phil, scoppiettante pasticcere anzianotto da poco lasciato dal compagno, e con l’aitante Max, amico del college tornato a casa dopo un decennio in giro per il mondo. E del quale la protagonista è innamorata da sempre.

Potete immaginare cosa succede e cosa non succede, ma non è tanto il “cosa” la questione, ma il “come”. La tradizione della sitcom multicamera parla chiaro: si recita davanti a un pubblico, fatto che implica una inevitabile teatralità nella scenografia e nell’impostazione. E se fino a qualche anno fa avevamo ancora una abitudine inconscia nel vedere questo tipo di serie, adesso appaiono come pitture rupestri a un uomo del Rinascimento.

Call Me Kat è un prodotto di un’altra epoca, che cerca però di strizzare l’occhio al presente. Kat, infatti, rompe la quarta parete e interagisce di continuo con il pubblico, nel disperato tentativo di ricreare un effetto Fleabag che ovviamente è lontano anni luce. Quello che crea è invece un sottile strato di imbarazzo, perché davvero si fatica a comprendere quale possa essere il senso di una serie di questo tipo nel 2021, al di là di ascolti non da buttare via. Poi ci sono le gag, perché tutto questo discorso sarebbe anche tranquillamente archiviabile se Call Me Kat facesse ridere, ma non è così. Drink sputati per la sorpresa, altri rovesciati a più riprese sui vestiti, classici imbarazzi in conversazioni da abbordaggio, fino alle risate sguaiate del pubblico in studio in una scena in cui Kat e l’amico Phil ballano in modo ridicolo. Tanta (goffa) comicità fisica, nessuna punchline efficace, zero originalità.

Per distinguersi dal resto dei network, HBO un tempo proclamava: “It’s not tv, it’s HBO”. Ecco, se prendiamo lo stato dell’arte della televisione attuale, anche Call Me Kat si fatica a inserire nella stessa categoria delle comedy del nostro tempo. È teatro in tv: e sì, lo è sempre stato, ma fino a qualche anno fa tutte le sitcom erano così. Adesso il mondo è cambiato e vien quasi da dire che il re è nudo. Anticipando il finale con il saluto degli interpreti nei confronti del pubblico in studio, Call Me Kat dimostra di essere consapevole della propria alterità. Ma la consapevolezza non basta, perché in questo caso non è accompagnata da un approccio metalinguistico, forse l’unica chiave che può ancora giustificare una sitcom multicamera.

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