Bridgerton – Netflix: una favolona per Natale (e niente più) di Marco Villa
Bridgerton è la prima serie Shondaland per Netflix ed è un favolone in costume talmente leggero da sembrare vacuo (e forse lo è)
Partiamo da quello che Bridgerton non è. Non è Downton Abbey, non è una ricostruzione storica, non è la classica serie di Shonda Rhimes (che qui. Tre NON importanti, perché quando sono state diffuse le prime informazioni su Bridgerton, la semplificazione ha voluto che si andasse nella direzione contraria, trasformando la prima serie Shondaland per Netflix proprio nella versione USA di Downton Abbey. Ecco, no: non è così.
Bridgerton, disponibile dal giorno di Natale, è tratta dall’imponente saga di bestseller di Julia Quinn, scrittrice statunitense che ha ambientato i propri romanzi nella Londra di inizio ‘800. Questo è il contesto in cui vive anche la serie, un contesto che dà riferimenti di abbigliamento, accento e sensazione di nobiltà diffusa, ma lì si ferma. Il fatto che sia l’Inghilterra di quell’epoca è giusto una convenzione, sarebbero potuti essere i Tropici e non sarebbe cambiato nulla: Bridgerton è infatti una serie che prende un tot di personaggi, li astrae dal mondo in cui vivono e li cala in un altro mondo in cui valgono solo convenzioni sociali e innamoramenti più o meno pilotati.
Il titolo si riferisce a una delle famiglie più in vista della società londinese, che è alle prese con una questione vitale: la figlia maggiore Daphne deve fare il suo debutto in società e affronta quindi la sua prima stagione in età da marito, con il chiaro obiettivo di fare in modo che sia anche l’unica. Come lei, tante altre ragazze della buona società, che cercano di mettere in mostra le proprie qualità, nella speranza di far cadere ai loro piedi un ragazzo che a sua volta è alla ricerca della donna perfetta. È la più classica delle dinamiche da corteggiamento, in cui entrambi gli attori in ballo interpretano la parte della domanda e quella dell’offerta, ma in cui – inevitabilmente – gli uomini hanno ben più libertà di manovra.
Le donne della serie, a cominciare dalla già citata Daphne (Phoebe Dynevor, vista qualche anno fa in Snatch), sono consapevoli di questa situazione e cercando di ribaltarla: possono provarci, però, solo agendo nell’ombra, perché le convenzioni sociali appaiono inscalfibili e le relegano all’angolo. Abbiamo quindi Daphne e famiglia, con un fratello maggiore che agisce come padre surrogato e che fa più danni che altro (per quanto in buona fede), una madre super-comprensiva e uno stuolo di fratelli e sorelle tra cui spicca Eloise, che potremmo avvicinare alla Jo di Piccole Donne e che è interpretata con grande carisma da Claudia Jessie. Daphne è considerata il “diamante della stagione” per bellezza ed eleganza notata addirittura dalla regina, ma si trova comunque in difficoltà a trovare il marito dei suoi sogni: in suo aiuto accorre il bel duca di Hastings (Regé-Jean Page) con cui intreccia quel tipico rapporto da “ti sopporto, ma mi dai fastidio” che sappiamo già a cosa porterà.
Lo so, non sono entrato particolarmente nella trama, ma vi assicuro che non c’è bisogno: Bridgerton, di fatto, non ha trama. È un susseguirsi di eventi del tutto prevedibili, ben messi in scena e ben raccontati, sfruttando anche la figura di una voce narrante che rivela dettagli nascosti della vita della Londra bene, una sorta di Gossip Girl interpretata da Julie Andrews.
Si diceva all’inizio: Bridgerton non è Downton Abbey, perché, pur condividendo la predilezione per l’intreccio amoroso e para-soap, la serie di Julian Fellowes cercava di creare l’affresco di un’epoca, questione che Chris Van Dusen (creatore della serie e già autore legato da tempo a Shonda Rhimes) non si pone in alcun modo. Basti pensare che in Bridgerton parte della nobiltà è nera e di colore è la stessa regina Charlotte, figura realmente esistita. Un mondo reinventato in chiave pop e contemporanea, così come accaduto di recente in The Great.
C’è poi la questione Shondaland, perché Bridgerton è la serie che inaugura il contratto stellare che Shonda Rhimes ha firmato con Netflix. Pur avendo punti di contatto con le altre serie targate Shondaland, Bridgerton è sostanzialmente differente, perché i suoi personaggi non devono mai confrontarsi con una quotidianità, per quanto straordinaria possa essere. Vivono in un mondo a sé, in cui nulla conta, se non questa benedetta faccenda della stagione dell’amore che viene e va. Ovviamente non può mancare il personaggio saggio e carismatico che porta avanti la dinastia delle Miranda Bailey, Olivia Pope, Annalise Keating: in questo caso è Lady Dunbary, interpretata da Adjoa Andoh.
In una serie, spesso la trama amorosa è sottesa lungo le puntate, mentre la parte principale dell’azione è occupata da vicende di altro tipo, legate al genere specifico delle singole serie: in Bridgerton questo non accade. La vicenda amorosa è l’unica presente e l’unica a essere sviscerata in ognuno dei minuti che compongono le puntate. Viene fatto con mestiere e con ritmo, ma lì si resta: è la favolona romantica che non a caso arriva il giorno di Natale. Vi basterà un episodio per capire se è roba vostra o meno, perché il canovaccio sarà sempre lo stesso: gente che va a dei balletti o delle feste, si guarda più o meno da lontano e si parla più o meno da vicino. E fine. Fino alla festa successiva.
Può bastare per riempire quelle ore lasciate libere dai cenoni e pranzi collettivi che non faremo? Sì, ma niente di più. Non dico che non sia già qualcosa, ma ci siamo capiti.
Perché guardare Bridgerton: perché è una favolona che non chiede altro che scivolarvi addosso
Perché mollare Bridgerton: perché è talmente leggera da sembrare vacua (e forse lo è)