The Crown 4 – La miglior stagione di Diego Castelli
Con The Crown non si sbaglia: la quarta stagione della serie Netflix, firmata da Peter Morgan, è un gioiello di arte e misura
SPOILER SU TUTTA LA QUARTA STAGIONE. MA POI SONO SPOILER SE SONO COSE SUCCESSE VERAMENTE (O QUASI) TRENT’ANNI FA?
Che The Crown fosse una delle serie migliori di questi anni – per scrittura, recitazione, messa in scena, cura dei dettagli – è una cosa che sappiamo più meno dalla metà del pilot.
Negli scorsi anni ne abbiamo parlato a lungo, e non credo sia necessario soffermarsi troppo su quelli che sono i pregi ormai risaputi della serie di Peter Morgan. Potremmo riassumerli tutti nella capacità di creare un affresco che, in modo a tratti miracoloso, è stato in grado di tenere insieme racconto storico, romanzo popolare, gossip di palazzo, analisi morale, sociale e politica, in un insieme che brilla per coerenza interna e per un livello produttivo semplicemente fuori scala.
Nemmeno in un percorso così eccelso, però, possono mancare degli alti e bassi. E questi ultimi non dipendono tanto da una scarsa vena creativa o da improvvisi errori, quanto dal fatto che The Crown racconta fatti realmente accaduti, infiocchettandoli e romanzandoli finché volete, ma rimanendo comunque legata a una cronologia che non può essere ribaltata a completo piacimento dell’autore.
In questo senso, e pur considerando che ognuno ha i suoi gusti e le sue fasi storiche preferite, la prima stagione di The Crown era fino a oggi la migliore, o quanto meno la più facile da amare. Un po’ per la sorpresa di trovarsi di fronte un prodotto così ben fatto, e un po’ per il gusto di scoprire i primi passi di una creatura soprannaturale (la Regina Elisabetta II) che ci sembra sedere sul trono d’Inghilterra dalla notte dei tempi, e che invece ha effettivamente una genesi in quanto sovrana, un inizio ormai abbastanza lontano nel tempo.
La scoperta di quel tempo mitico, impreziosito dalla recitazione misurata ma non per questo fredda di Claire Foy, aveva avuto il potere di farci scoprire un personaggio figlio del suo tempo, capace di rinnovare, pur senza stravolgerla, un Corona che aveva bisogno di qualche correttivo per non soccombere al Ventesimo secolo.
Un rinnovamento poi interrottosi nella terza stagione, quella dell’invecchiamento e del cambio di cast, quella in cui una rigida e compassata Olivia Colman dava vita a una Elizabeth in cui il peso della corona si era fatto così pesante, da soffocare le spinte giovanili al rinnovamento, lasciandole tutte in mano a Charles, che però di potere ne aveva ben poco e l’unica cosa che poteva fare era sbattere i piedi per cercare di avere qualcosa di diverso, se non per il Paese, almeno per se stesso.
Una stagione, la terza, senza dubbio al livello delle altre in termini di abilità nella messa in scena, ma a cui mancava giocoforza il calore delle prime due stagioni, e anche qualche evento nudo e crudo che potesse accompagnare la sola novità di un Charles ormai adulto e capace di litigare con la madre.
Poi arriva la quarta stagione. Ed è inutile nascondersi dietro un dito: era la stagione più attesa, proprio perché l’aderenza alla Storia che aveva creato qualche rallentamento nel precedente ciclo di episodi, qui prometteva di mettere in campo l’artiglieria pesante. La quarta stagione di The Crown segna infatti l’arrivo sulla scena di due figure attesissime, due fra le personalità più conosciute e importanti dell’Inghilterra del dopoguerra: Margaret Thatcher e Lady Diana Spencer. Interpretate rispettivamente da Gillian Anderson ed Emma Corrin, le due donne si prendono la scena di quasi tutta la stagione, ora alternandosi ora contemporaneamente, rimescolando in modi diversi, ma comunque decisivi, gli equilibri granitici della casa reale e, più nello specifico, del sistema dei personaggi di The Crown.
I temi e gli spunti sarebbero tantissimi, e per me sarà sempre un peccato non poter vedere e analizzare episodi di questa portata con la calma della visione settimanale. Però vabbè, adattiamoci.
A me sembra che ci siano due temi fondamentali in questa stagione, trattati a più riprese e in vario modo, e naturalmente intersecantesi uno con l’altro.
Il primo è quello della distanza, il secondo quello dei ruoli.
Per distanza intendo soprattutto quella della Corona dalla gente comune. Il tema non è certo nuovo nella serie, e le prime tre stagioni hanno raccontato un progressivo allontanamento della Regina dalla gente, partendo dalla ragazza capace di provare empatia per il proprio popolo, e arrivando alla signorotta di mezza età che non riesce più a connettersi con la pancia del Paese, tanto che quel Paese, simbolicamente, avrà bisogno di entrarle fisicamente in camera da letto per farsi sentire (episodio 5).
In questo discorso, la figura della Thatcher è fondamentale. Prima premier donna della storia d’Inghilterra, Margaret si pone narrativamente come seconda regnante accanto a Elizabeth, e con lei si scontra continuamente, per via di visioni molto diverse sulla realtà (pragmatica, poco idealista, ma portata al cambiamento Thatcher, istituzionale e antica la regina). Allo stesso tempo, però, Peter Morgan rifugge con attenzione qualunque giudizio politico specifico sull’operato della prima ministra (non è mai stato l’obiettivo di The Crown quello di esprimere precisi giudizi politici), e dà alle due donne molte possibilità di contatto: sono entrambe madri orgogliose, capaci di estrema freddezza verso la prole (la Thatcher con la figlia, la Regina con Charles), ma anche in grado di provare vero dolore e spossatezza (quando entrambi i primogeniti, in momenti diversi, paiono a rischio della vita).
Quasi tutto, nel racconto delle due donne, serve a distanziarle, a volte con risvolti perfino comici (la Thatcher in campagna, oppure quando cucina non volendo in alcun modo rinunciare al suo ruolo di moglie almeno in parte tradizionale, oppure ancora quando mostra fastidio e insofferenza verso le regole della corte), eppure Morgan alla fine le avvicina, quando la conclusione della carriera della Thatcher porta al riconoscimento, da parte di Elizabeth, dell’impegno che Margaret ha sempre profuso per il bene del paese, a prescindere dall’efficacia o meno dei risultati (sulla cui analisi e messa in scena servirebbe probabilmente un’altra serie).
Un po’ come se i personaggi avessero in sé la possibilità e la capacità di creare dei ponti, facendo però una fatica boia a superare i burroni creati dalle consuetudini e, come si diceva, dai ruoli.
Ma la distanza con il popolo non viene solo dalla Thatcher, bensì anche dalla stessa Diana. La ragazza non fa parte del “popolo” in senso stretto, perché è comunque di sangue blu, ma la sceneggiatura è sempre molto precisa nel mostrarci la sua estraneità alla vita di corte, a partire dal suo lavoro di babysitter e sguattera spiantata. E la fama crescente di Diana servirà proprio a mostrare l’allontanamento sempre maggiore della Corona dal popolo, creando la paradossale tensione per cui si chiede a Diana di colmare quel vuoto, ma allo stesso tempo (da parte di Charles, ma non solo) le si impone (fallendo) di rientrare continuamente nei ranghi della mogliettina perfetta e silenziosa, che lascia al marito la possibilità di risplendere. Possibilità, inutile dirlo, che Charles non ha per suoi limiti personali.
E veniamo qui al tema dei ruoli, che è un grande classico di The Crown. Fin dall’inizio della serie, infatti, il racconto principale riguarda una ragazza, che non pensava di poter aspirare al trono, che invece ci si ritrova sopra sentendo tutto il peso di una responsabilità che abbraccia un intero regno. Un peso che, come abbiamo visto poco sopra, schiaccia Elizabeth al punto da trasformarla completamente già nella terza stagione, quando non ha più nulla (o ha molto poco) della ragazza composta ma ancora vitale che era nelle prime due stagioni.
Il quarto ciclo di episodi ripropone quello stesso tema, stavolta però con un twist. Se infatti c’è una generazione che ha ben chiaro il sistema dei ruoli ed è disposta ad abbracciarlo a qualunque costo (è la generazione di Elizabeth ma anche della Thatcher, che come lei stessa specifica è nata lo stesso anno della Regina, e come lei ricopre un ruolo diverso ma comunque granitico, che le impedisce ogni concessione all’emozione personale, che le impone comportamenti e reazioni specifiche), c’è una generazione successiva a quella (che comprende Charles e Diana) che invece non riesce ad adattarsi e continua a spingere per sovvertire l’ordine costituito.
In questi giorni ho visto diverse persone, in preda all’entusiasmo, scagliare bordate velenose contro Charles, a difesa di una Diana che pian piano, nonostante mille ostacoli e angherie, diventa la “principessa del popolo” lasciando il marito a crogiolarsi nella sua cattiveria.
Solo che non è quello che racconta The Crown, o almeno non così.
Che ci sia un racconto di Diana in quanto vittima mi pare palese. Diana è una ragazza di 19 anni che viene presa, analizzata, giudicata, approvata da una famiglia che tratta i propri membri come pedine su una scacchiera, piuttosto che come esseri umani, e che viene sostanzialmente bullizzata. I disordini alimentari di cui Diana comincia a soffrire molto presto sono solo i sintomi più vistosi di un malessere che ha origine nel tentativo di appiccicarle addosso un ruolo che non ha mai chiesto, o che quanto meno non credeva così rigido, e al quale non sono ammesse deroghe. E per lei, che non è stata “allevata” fin da bambina a questo percorso, lo shock è troppo grosso per poter essere riassorbito.
Buona parte della quarta stagione di The Crown è spesa per mostrare il fiorire pubblico, ma contemporaneamente lo sfiorire privato, di una ragazzina che non a caso compare sulla scena per la prima volta travestita da fauno di Shakespeare, salvo poi ingrigirsi sempre di più, finendo confinata in un abisso di disperazione artificiale che non meritava.
Ma sarebbe un errore, a mio giudizio, considerare Charles il diretto colpevole di quella condizione. Che faccia ben poco per lenirla siamo d’accordo, ma da un punto di vista narrativo Charles e Diana hanno lo stesso identico ruolo. Fin da bambino, Charles è incastrato in una cornice che non è a lui congeniale, fin da quando lo vedevamo impegnato in una scuola privata da cui era uscito sostanzialmente traumatizzato. Negli anni successivi, anni in cui lentamente ma inesorabilmente diventava sempre più palese la sua inadeguatezza come erede al trono, Charles ha perso contemporaneamente ogni possibilità di essere se stesso, ma senza avere la capacità di essere ciò che gli altri vorrebbero da lui.
Che ci piaccia o meno, anche pensando alle controparti reali dei protagonisti, la frustrazione di Charles di fronte ai successi pubblici di Diana è del tutto comprensibile, perfettamente coerente col percorso del personaggio. Non solo: è perfettamente comprensibile che Charles voglia essere l’eroe della sua storia, come tutti vorremmo essere gli eroi e le eroine della nostra.
Da qui viene quel bel dialogo con Camilla, in cui lei lo mette di fronte al fatto che la loro, in un altro contesto, sarebbe stata una grande favola d’amore, quella di due persone che si amano da sempre e il cui sentimento sopravvive per decenni, fino al momento di poter essere coronato (come poi sarà anni dopo la morte di Diana). Questo però non è possibile, perché i ruoli in cui i vari personaggi sono incastrati non permettono deviazioni, se non pagando il prezzo di sofferenze terribili. Anche il ruolo pubblico di Diana, a quel punto, diventa un peso sulla vita di Carlo, perché l’amore che il popolo prova per sua moglie è la barriera che si pone fra lui e i suoi desideri di felicità.
Oggi, come sappiamo, quel sistema di ruoli è stato ulteriormente incrinato e rimescolato. Diana e Charles si sono separati, e lui ha infine sposato Camilla. E per un William che fa “il suo dovere” sposandosi e figliando con Kate Middleton all’interno della cornice regale tradizionale, c’è un Harry che sposa l’attrice americana Megan ed esce ufficialmente dalla famiglia, rischiando di diventare un paria come lo zio di sua madre.
Da questo punto di vista, la quarta stagione The Crown racconta proprio l’inizio di quell’incrinamento, di quel solco generazionale. Non si contano le scene in cui Elizabeth prova a convincere Charles e la nuora del fatto che, per il bene del Paese, le infelicità temporanee vanno soffocate e curate attraverso l’impegno e la dedizione. Ma tutto sarà vano, perché sappiamo che Diana e Charles si lasceranno, e a quel punto ne siamo palesemente felici, perché se è vero che Morgan non prende specificamente le difese dell’uno o dell’altro, limitandosi a dipingere l’affresco della loro infelicità, è proprio quell’infelicità a chiamare un riscatto, a mostrare che certe consuetudini sono ormai troppo vecchie per reggere l’impatto del mondo contemporaneo.
Se questi mi sembrano i temi maggiormente sviscerati dalla quarta stagione di The Crown, mi sono tenuto un paragrafo finale per parlare apposta della messa in scena, e in particolare del cast.
Permettetemi di uscire dall’ingessatura della recensione (e via altri ruoli che saltano) per dire che Gillian Anderson ed Emma Corrin, molto semplicemente, spaccano tutto.
La Thatcher della Anderson è straordinaria. All’inizio sembra quasi una macchietta, soprattutto per il modo di parlare (che però è piuttosto realistico), ma il vero lavoro dell’attrice sta nella postura, nei movimenti, nella capacità di far passare emozioni poderose su un volto che però, contemporaneamente, si impone di rimanere inflessibile, se non in pochi momenti fuori dallo sguardo pubblico. Pur non essendo mai stata un’interprete che puntava specificamente sul sex appeal, Gillian Anderson è sempre stata un’attrice dall’altissima femminilità, e qui riesce insieme ad annullarla per interpretare un personaggio che di femminile in senso classico non aveva molto, ma a conservarne quanto basta per mostrare il contrasto e le pressioni che una donna simile, così sola in un mondo politico iper-maschile, ha dovuto sopportare (pressioni che, come detto sopra, l’avvicinano all’amata/odiata regina).
Ma se la bravura di Gillian Anderson ci stupisce il giusto, quello di Emma Corrin è un debutto sfavillante sul (grande) palcoscenico seriale. C’è di nuovo un tema di mimesi, tale per cui ci sono momenti in cui sembra proprio Diana. Ma al di là dell’imitazione, il maggior risultato dell’attrice è quello di aver mostrato splendidamente le tensioni intrinseche del personaggio: c’è l’innocenza della ragazzina sballottata nel mondo più grande di lei, ma c’è anche una maliziosa consapevolezza dei riflettori e un certo amore per l’apparire; c’è l’ingenuità di una principessa che sogna la favola, e l’amara consapevolezza di ritrovarsi nel grigiore; c’è la spinta verso il cambiamento più fresco e debordante (le esperienze teatrali), ma anche la ripicca pruriginosa dei tradimenti. Un personaggio incredibilmente sfaccettato, insomma, capace di trasmettere una grandezza (grandezza non solo in senso positivo, ma in senso più propriamente drammatico) che la gente ha sempre percepito, ma anche di mostrare le fragilità di una persona tutt’altro che indistruttibile.
Un lavoro così meritevole, quello di queste due attrici nuove arrivate, da mettere in ombra quello del resto del cast, che però resta pregevole: la Regina di Olivia Colman è ormai quasi fastidiosa, nella sua consapevole ottusità. Il Charles di Josh O’Connor continua a essere magistrale, proprio perché ci trasmette in maniera molto precisa la frustrazione di chi sa di non riuscire a farne mai una giusta (al punto tale che risulta fastidioso anche a noi, come se la mancata simpatia del pubblico di The Crown fosse l’ultimo, ennesimo fallimento). La Margaret di Helena Bonham Carter, che stavolta si prende un solo episodio per sé, non è più un centro di interesse così potente come in passato, ma si inserisce bene nel discorso dei ruoli che facevamo prima: anche lei è incapace di coltivare ulteriormente il ruolo che si è costruita da sola (la sorella ribelle), ma impossibilitata a trovare un altro ruolo nella famiglia, che in qualche modo la ripudia con la stessa freddezza riservata ad ogni suo membro (ci spiace Margot, ma la tua non è la generazione delle rotture riuscite).
Ancora una volta, Peter Morgan è rimasto relativamente lontano dagli eventi più grossi, sfarzosi e conosciuti (tanto per dirne una: non si vede il matrimonio fra Diana e Charles), preferendo concentrarsi sul dietro le quinte, su avvenimenti meno famosi, sulle sfumature più segrete di un mondo di personaggi che avevano bisogno proprio di quello, di uno sguardo che cercasse di andare oltre l’ovvio e il superficiale, raccontando le persone che si celano dietro i titoli. Ma grazie alla bravura dei suoi attori e attrici, e al rilievo comunque dirompente di due figure come quelle di Margaret Thatcher e Lady Diana, l’autore è nuovamente riuscito a ricostruire un intero mondo guardandolo attraverso le pieghe delle tende, rigorosamente senza malizia o prurigine, ma con un interesse vero per un’umanità insieme particolarissima ma anche, a sorpresa, sempre universale (perché non è che i temi della pressione sociale, di genitori incapaci di agire realmente per il bene dei figli, insomma di persone che abbiano, per un motivo o per l’altro, le priorità tutte sballate, sia solo affare da regnanti).
La prossima stagione di The Crown, che dovrebbe essere la penultima, arriverà nel 2022. C’è ancora molto da raccontare, non ultima la morte della stessa Diana (anche se, per le cose appena dette, dubitiamo che verrà realmente rappresentata sullo schermo), eppure c’è la sensazione di aver scollinato. C’è insomma il timore (blando eh, senza esagerare) che una stagione come questa sia irripetibile, con quei personaggi e quel particolare momento storico. L’unico twist davvero dirompente sarebbe la morte della Regina, ma credo che Peter Morgan, e noi con lui, passeremo a miglior vita prima di lei.
Staremo a vedere, anche se una cosa possiamo essere sereni: il livello di The Crown, salvo rivoluzioni, dovrebbe rimanere sempre altissimo.