6 Ottobre 2020

Emily in Paris – Netflix: la differenza tra leggerezza e sciatteria di Marco Villa

Emily in Paris è leggera fino all’inconsistenza. E va bene. Ma non è curata. E questo non va bene.

Pilot

Non c’è niente di male in una serie dichiaratamente leggera e senza pretese. L’importante è mettere in chiaro da subito le cose, per permettere di capire a quale tipo di pubblico vuole rivolgersi e quale funzione vuole avere. In Emily in Paris tutto è definito dall’istante zero: siamo davanti a una serie di pura evasione, che non richiede alcuno sforzo di comprensione e che è rivolta a un pubblico femminile. Tutto evidente ed esplicito: quello che però non è scontato è che, per raccontare la propria storia, Emily in Paris sceglie non solo la strada più semplice e dritta, ma spesso anche quella più sciatta. E di fronte a certi scivoloni non conta più il discorso pubblico/funzione, perché tutto si riduce a una serie tirata via.

Disponibile dal 2 ottobre su Netflix, Emily in Paris ruota intorno a Lily Collins, protagonista assoluta e accreditata anche come producer. Collins è Emily Cooper, esperta di marketing digitale che viene spedita a Parigi dall’azienda per cui lavora. A Chicago lascia un fidanzato e una rete di relazioni, per buttarsi in un’avventura che la vede sola contro il resto del mondo. Perché Parigi dal punto di vista di un’americana è esattamente la Parigi che potete immaginare: da un lato palazzi da sogno, bistrot deliziosi e pain au chocolat da orgasmo, dall’altra francesi snob, colleghi respingenti e una diffidenza generale per chi – come Emily – parla solo inglese.

Emily in Paris viaggia su due binari: la vita lavorativa, complicata e in cui Emily deve farsi valere per dimostrare di essere all’altezza di un’agenzia che lavora con marchi di lusso pur non avendo la raffinatezza innata che colleghe e colleghi ritengono di possedere; la vita personale, con il fidanzato destinato a essere dimenticato in tempo zero e una pletora di aspiranti sostituti pieni di fascino. A tutto questo, va aggiunta un’ulteriore storyline che vede Emily trasformarsi in influencer grazie all’account Instagram – guarda un po’ – @emilyinparis.

Da un concept del genere può uscire senza problemi una serie brillante, ma Emily in Paris si impegna a fondo per giocare solo di stereotipi e semplificazioni. E può andare bene all’inizio, in una fase di presentazione, poi qualcosa deve scattare. Invece niente, nonostante alla casella “created by” ci sia il nome di Darren Star, che da un po’di anni non firma niente di importante, ma che è comunque Mr. Sex & The City. Come da classico, in ogni puntata c’è una piccola sfida da superare, ma sia la sfida, sia il modo di affrontarla sono sotto il minimo sindacale della creatività.

Per intenderci, serve un esempio: Emily è al tavolino di un bar, un belloccio le si avvicina per provarci e si mettono a fare congetture su una coppia seduta nel tavolo accanto fino a quando il tizio le dice: “Sai, ho capito tutte queste cose perché sono professore di semiotica: studio i segni”. Sì sì, proprio così. Nel corso della puntata, i riferimenti al fatto che lui sia un professore si sprecano, andando a toccare ogni scena e ogni dialogo, perché in Emily in Paris i personaggi sono tutti piallati su un’unica caratteristica definente.

A quel punto, anche la visione distratta e senza sforzo è messa a dura prova dalla costante consapevolezza di essere di fronte a un prodotto non curato, salvato solo in parte da puntate di durata sempre inferiore alla mezz’ora.

Perché guardare Emily in Paris: perché è talmente inconsistente da non lasciare tracce del proprio passaggio

Perché mollare Emily in Paris: perché è tutto tirato via

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