Cursed: su Netflix un altro fantasy mediocre, con Hannah Baker e Floki di Diego Castelli
La protagonista di 13 diventa Nimue, la Dama del Lago, in una serie piena di potenzialità e altrettanti difetti
L’ultima volta che ho recensito una serie fantasy, cioè Warrior Nun, non è andata benissimo. Non è andata benissimo perché a me non è piaciuta, e non è andata bene perché molti/e di voi non erano d’accordo. Insomma, un macello.
Capite quindi che al momento di recensirne un’altra, Cursed, sempre di Netflix ma con un paio di facce apprezzate e la firma nobile di Frank Miller (produttore esecutivo e illustratore del romanzo da cui la serie è tratta, scritto da Tom Wheeler), ho detto “dai che questa volta va meglio, dai che ci entusiasmiamo!”.
E niente, s’è scoperto che no.
Però non ne sono uscito schifato, solo… sfiduciato.
Allora, facciamo le cose per bene. Si diceva di un romanzo illustrato firmato Wheeler e illustrato Miller, che ovviamente non ho letto, ma tanto questo non è un sito di letteratura. Diciamo però che se ne parla bene, e non dispiace la volontà di aggiornare e reinterpretare un mito vecchio di secoli: Cursed è infatti immerso nella mitologia del ciclo arturiano, ma con un punto di vista originale. Il protagonista del racconto non è Artù, che pure compare come giovane uomo ancora ben lontano dal famoso sovrano che diventerà, bensì Nimue, una ragazza appartenente a una stirpe di druidi/creature della foresta (i Fey), che per la sua vicinanza naturale con la magia oscura viene mal vista dagli stessi Fey, che la temono e la allontanano. Quando però i Fey vengono decimati dai Paladini Rossi, sorta di preti guerrieri, integralisti e incazzati il cui unico scopo è passare a fil di spada i non-propriamente-umani, Nimue rinuncia a ogni proposito di fuga dal suo stesso popolo, per drizzare la schiena e tentare di proteggerlo. E lo fa soprattutto grazie a un antico manufatto della sua gente, una spada dai grandi poteri che la madre morente le chiede di portare al famoso Mago Merlino.
Insomma, per farla breve: pur con molte licenze poetiche rispetto alla tradizione, Cursed è al storia di Excalibur, Merlino e Artù, vista però da un punto di vista nuovo, quello della Dama del Lago, che anche nella tradizione (o in alcune versioni di essa) consegna ad Artù la mitica spada che segnerà il suo destino.
A questo punto mi sembra giusto chiarire un punto importante, specie per certe cose che diremo fra poco. Qui e là ho già visto storcere il naso per il fatto che Cursed ha il classico profilo da “serie woke del 2020”. Giusto per capirci, è una serie incentrata sul ciclo arturiano, in cui però la protagonista è una donna, Artù e Morgana non sono bianchi (e lei nemmeno etero), ecc ecc. Apriti cielo, non sia mai che non si possa deviare da codici scolpiti nella pietra anche quando sono a loro volta inventati di sana pianta.
E sia chiaro, io nemmeno voglio fare il paladino dell’attivismo: che le produzioni americane stiano cominciando a lavorare spuntando voci da un foglio, per rispondere a una pressante esigenza di inclusività, mi pare evidente, e qualche volta la cosa scivola nel pacchiano. Ma questo non significa che la rivisitazione di storie già conosciute, inquadrate da punti di vista nuovi che consentano di coinvolgere e stuzzicare l’interesse di fasce di popolazione prima lasciate ai margini, non sia legittimo. Anzi, mi sembra necessario perfino da un punto di vista commerciale e industriale, oltre che, banalmente, etico. Né mi sembra calzante l’argomento “eh ma per i temi inclusivi non si possono usare storie nuove, invece che fare l’Uomo Ragno nero?” (per dirne una). Sì e no, perché poter lavorare su un “marchio” consolidato nel corso dei decenni, o addirittura nei secoli, avrà sempre un sapore e una forza diversa rispetto alla fondazione di una mitologia tutta nuova.
Tutto sto pippotto, in attesa di tirare qualche sberla a Cursed, solo per dire che ci interessa relativamente se un personaggio tradizionale viene dipinto come maschio o femmina (o qualche sfumatura in mezzo), bianco o nero (o qualche sfumatura in mezzo). Quello che ci interessa è se una storia è raccontata bene o male, e messa in scena bene o male.
Ebbene, cara Cursed, ho fatto tutti i distinguo che ho potuto, ma ora mi tocca.
Cursed non è una bella serie. E non perché non ne avesse le potenzialità. Ma perché semplicemente non arriva fino a lì.
La storia tutto sommato funziona, per sommi capi, e qui vediamo la forza delle figure millenarie: sentir parlare di Merlino e Artù, della stirpe dei Pendragon, di Excalibur, di misteriose Dame e pericolose fattucchiere, di cattivi cattivissimi che oppongono il loro integralismo all’innocua libertà di poveri contadini, sono tutti elementi che fanno parte di una narrazione in cui siamo immersi da sempre, e che risuonano in noi come campanelli. In questo senso, certe modifiche o reinterpretazioni della storia che già conosciamo funzionano pure nel senso di costruire una tensione diretta proprio alle strutture classiche. Un esempio su tutti: quando incontriamo per la prima volta Morgana, è una ragazza normale che non conosce la magia. Ma proprio sapere che Morgana deve diventare una grande maga, ci fa attendere con una certa trepidazione il momento in cui qualcuno o qualcosa la metterà di fronte a un destino diverso da quello che lei si aspetta.
Se il problema di Cursed non sta dunque nel concept della storia, e tutto sommato nemmeno nei macro-eventi che la sviluppano, il problema è proprio la messa in scena, cioè il passaggio dalle pagine scritte e illustrate all’audiovisivo.
Da questo punto di vista, la serie di Netflix punta ad alcune facce già conosciute dal pubblico – Katherine Langford, l’Hanna Baker di 13, e Gustaf Skarsgård, l’amatissimo Floki di Vikings, che qui interpreta un Merlino un po’ sui generis (anche se di Merlini lontani dallo stereotipo disneyano de La Spada nella Roccia ne abbiamo visti parecchi) – e cerca di darsi forza con un piglio abbastanza violento e sanguinoso, in cui poche cose sono lasciate all’immaginazione. Ma a parte questo, quello che si vede sullo schermo puzza troppe volte di Xena, quando da Xena sono passati 25 anni.
Un po’ meglio quando è in città rispetto a quando va in campagna (con atmosfere da scampagnata in Brianza), Cursed si porta però sempre dietro un’immagine vecchia, banale, con una fotografia inutilmente smarmellata (sempre grazie Duccio Patané) che non c’azzecca molto con i toni teoricamente cupi dello show. Non c’è un’idea di messa in scena, non c’è un guizzo, ma non c’è nemmeno quel livello minimo che ormai sarebbe da pretendersi da una serie tv del 2020. Da questo punto di vista, la serie piazza qualche scatto d’orgoglio giusto nel finale, un po’ più ricco e anche probabilmente dispendioso in termini economici, ma ci vogliono NOVE ORE per arrivarci.
Io non voglio fare a tutti i costi il paragone con Game of Thrones, che ha intenti molto diversi da Cursed ed è comunque una roba fuori scala. Ma volenti o nolenti, Game of Thrones ha mostrato cosa può far vedere il fantasy sul piccolo schermo, e al confronto Cursed sembra girata col telefonino da una banda di dodicenni al parchetto.
In realtà, però, a questo problema si potrebbe anche ovviare. Non mi ha fatto lo stesso effetto repulsivo di Warrior Nun, e con una certa dose di fanciullesco ottimismo si potrebbe anche pensare di godersi questa avventura medievale anche se sembra Fantaghirò. A ben guardare, poi, alcune delle goffaggini visive di Cursed si trovano anche in The Witcher, che pure mi è piaciuto molto.
La differenza, però, è che The Witcher è una serie pensata per essere anche un po’ cialtrona, che nasce da una figura, quella di Geralt di Rivia, fin dall’origine iconoclasta, razionale, (auto)ironica e metatestuale, inserita in un universo che altrimenti, solo a guardare cosa c’è dentro, suonerebbe terribilmente derivativo.
Cursed, però, quell’autoironia non ce l’ha. Cursed ci crede tantissimo. E se ci credi tantissimo, se vuoi essere epica, se vuoi che chi ti guarda provi un senso di terrore e rabbia quando gli innocenti vengono ammazzati, devi fare le cose fatte bene, e i tuoi personaggi non possono sembrare cosplayer improvvisati che provano una scenetta in un parcheggio del Lucca Comics. Questo è l’effetto che mi ha fatto una scena di cui non do dettagli, forse nell’episodio sette, in cui ci sarebbe proprio l’esigenza di sentire il peso dell’epica alla Braveheart, quei sentimenti di rivalsa popolare pure un po’ dozzinali, ma costruiti per prenderti il cuore anche quando vorresti fare il sostenuto. Solo che Cursed non ce la fa, perché ci si arriva attraverso dialoghi e monologhi insistentemente pomposi, artificiosi, privi di qualunque scioltezza. Incredibilmente vecchi, per una serie che invece vorrebbe proprio svecchiare una tradizione potenzialmente polverosa.
In ultimo, un tema di target. Perché di nuovo, a voler essere magnanimi e considerando il materiale di partenza, dichiaratamente young adult, si potrebbe essere tentati di considerare Cursed una serie solo per ragazzi, o addirittura ragazzini, togliendole di dosso le aspettative alzate da GoT e The Witcher e lasciandole percorrere un cammino più giovane e spensierato. Però se anche la vedessimo così, allora sarebbe troppo violenta: così a occhio, a uno che ha nove anni potrebbe anche legittimamente piacere, ma fra parolacce e sangue a fiumi, usati per dare spessore adulto a una serie che altrimenti non ce l’ha, non si sa più che pesci prendere. Un po’ meglio, da questo punto di vista, The Letter for The King, altra serie largamente inutile, ma che almeno non ci traumatizza figli e nipoti.
E mi dispiace per Cursed, perché non la reputo “orrenda”. Non mi fa venire voglia di disdire l’abbonamento, come si dice in questi casi. Tutte le cose che potevano funzionare solo lì, si intravedono. A volte, per brevi attimi, si sentono pure. Ma poi arriva un dialogo che ridefinisce il concetto di banale, o un’inquadratura che sembra girata dietro casa mia, e casca tutto.
PS Che poi diciamoci la verità, già la locandina là in alto era un po’ troppo pomposa, o no?
Perché seguire Cursed: rivisitazione interessante del ciclo arturiano, con l’aggiunta di preti cattivi (piace sempre) e il ritorno seriale del Floki di Vikings.
Perché mollare Cursed: troppe volte scende sotto il livello di sufficienza sia in termini visivi che dialogici.