4 Giugno 2020

Killing Eve 3: stagione imperfetta e coraggiosa di Diego Castelli

Il terzo capitolo delle avventure di Eve e Villanelle sposta alcuni equilibri trovando momenti di alta qualità e altri più zoppicanti

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA TERZA STAGIONE!

Considerando che andiamo verso un periodo di probabile magra seriale, dovuto a ritardi, rimandi e cancellazioni legati al Covid (per approfondimento vi rimando alla scorsa puntata del nostro podcast), poter parlare di un finale di stagione fatto e finito, scritto e girato come da programma, ci dà un certo qual senso di normalità.
E la terza stagione di Killing Eve, una delle serie preferite da queste parti, ha offerto diversi spunti di riflessione, diversi motivi di plauso, e anche qualche zona d’ombra in cui riconoscere la peculiarità produttiva della serie, cioè il fatto che ogni stagione è sviluppata da un’autrice diversa (quest’anno è toccato a Suzanne Heathcote) che inevitabilmente impone il proprio sguardo e la propria prospettiva, con la possibilità di alzare il tasso di creatività e freschezza dello show, ma anche con il rischio di non tenere saldo il timore della barca.

In questo senso, la terza stagione di Killing Eve si è occupata un po’ meno della trama in sé e per sé, e un po’ più dello sviluppo e della crescita dei singoli personaggi all’interno del loro mondo. Parliamo di sfumature, naturalmente, perché la serie resta incentrata sul rapporto assolutamente disfunzionale ma a suo modo tenero fra due donne teoricamente nemiche eppure legate da un’attrazione quasi inesplicabile. Allo stesso tempo, però, è stato evidente un certo spostamento di fuoco, che per esempio ha portato a lavorare molto più che in passato sulla figura di Villanelle non in quanto assassina simpatica e un po’ grottesca, ma in quanto persona con un passato preciso e un percorso altrettanto chiaro.
Era forse inevitabile, dunque, che le cose migliori della terza stagione di Killing Eve uscissero proprio da qui, da una miniera narrativa ancora in parte inesplorata (cioè il passato di Villanelle) da cui sono state estratte le gemme più preziose.

Il perno di questa storia è naturalmente il quinto episodio, quando Villanelle fa visita alla famiglia in Russia. Una puntata che arriva a metà stagione e che segna un prima e un dopo del personaggio. Prima di quel momento, l’ingresso nella serie di Dasha – vecchia istruttrice di Villanelle che rappresenta un po’ la sua “mamma adottiva”, così come Konstantin è il padre adottivo (verità chiarissima al momento in cui l’uomo saluta Dasha per l’ultima volta in ospedale) – era stato una prima finestra sul passato di Villanelle, l’inizio di un sentiero che porta l’assassina a voler capire di più delle proprie origini e di una madre che l’aveva abbandonata in tenera età. Ma è proprio il viaggio in Russia a cambiare le carte in tavola: nella madrepatria Villanelle non cerca tanto di ricostruire il rapporto con la madre, quanto piuttosto di comprendere meglio se stessa attraverso di lei. Villanelle (ma in questo caso dovremmo usare il suo vecchio nome, Oksana) cerca una spiegazione, se non addirittura una giustificazione, della propria natura omicida e maniacale, e spinge affinché la madre riconosca il suo ruolo in essa. Il rifiuto da parte della donna di prendersi una qualunque responsabilità per le scelte di vita della figlia, scatena l’unica risposta che Villanelle conosce per far fronte ai suoi problemi, cioè la violenza.
Il matricidio, che arriva alla fine di un episodio tutto surreale e parecchio divertente, è però “troppo” anche per la protagonista, che con quell’atto in qualche modo si “rompe”, perdendo la propria capacità di uccidere con la stessa leggerezza di prima.

Quello a cui assistiamo è lo svelamento del fatto che Villanelle (inteso come “l’assassina perfetta”) è una facciata colorata e sopra le righe con la quale Oksana cerca di nascondere e dominare i propri traumi. Uccidere la propria madre ha comportato, per Oksana, incrinare anche quella facciata, non più sufficiente a contenere i problemi di tutta una vita.
Dopo il matricidio, Villanelle non riuscirà più a uccidere nessuno, per lo meno nessuna delle sue vittime classiche, cioè i bersagli indicati dai Twelve. Riuscirà a ferire Dasha, in una sorta di secondo matricidio, e poi a uccidere la tirapiedi di Hélène, spinta sotto la metropolitana in un momento che, forse, rappresenta un ritorno all’operatività.
Ma certo è che questa terza stagione, non senza una buona dose di coraggio, ha messo in discussione proprio l’elemento che da sempre rappresenta l’attrattiva maggiore per il pubblico, cioè il carattere folle e imprevedibile della protagonista.

Proprio il finale è pieno di prove inconfutabili sul mutamento di Villanelle. Giusto per dirne due: il suo tentativo di convincere Carolyn ad assumerla all’MI6, ma senza compiti di omicidio (richiesta rifiutata da Carolyn che, per l’appunto, non è disposta a credere alla possibilità che Villanelle possa essere altro rispetto a un’assassina a pagamento); e poi la scena della sala da ballo, in cui Villanelle e Eve dondolano languidamente in un breve lento in cui entrambe si mettono a nudo, riflettendo addirittura su una loro possibile relazione futura, per finire poi con Villanelle che, allontanata la nemica/amica/amante, reindossa la maschera da cattiva mattacchiona per la scena con Rhian, in cui sembra proprio “impersonare” Villanelle, piuttosto che “esserlo”.

Ma Villanelle non è l’unico personaggio a cui viene permesso/imposto di scavare nel proprio mondo personale, alla disperata ricerca di un po’ di ordine e pace. Ottimo per esempio il lavoro su Carolyn, la fredda spia la cui gelida compostezza viene incrinata dalla morte del figlio Kenny e dal tentativo, da parte della figlia Geraldine, di (ri)costruire un rapporto madre-figlia che semplicemente non c’è mai stato.
Carolyn non subisce un cambiamento evidente come Villanelle, nemmeno quando la vediamo uccidere impulsivamente Paul in una specie di sfogo per il quale viene cazziata da Eve. Ma viene comunque messa alla prova, e ci viene consentito di vedere (o intravedere) nuovi lati di lei, di volta in volta smorzati, soffocati, nascosti, ma che ci hanno permesso di conoscerla e apprezzarla meglio.
Discorso simile per Konstatin, un personaggio dedito all’inganno e alle ombre, ma di cui abbiamo visto momenti di fragilità vera, fisica (gli infarti) e mentale (specie nel rapporto con la figlia).

Un buon lavoro sui singoli personaggi, dunque, a cui fa da contraltare una gestione non perfetta delle loro relazioni e della trama più generale.
Tutta la narrazione legata ai Twelve e ai temi classici di Killing Eve è finita un po’ in secondo piano, tanto che a fine stagione ci si chiede cosa sappiamo veramente in più di loro e della lotta per sconfiggerli: “sostanzialmente niente” è la risposta, anche se a all’inizio sembrava che il lavoro di Kenny nella redazione di Jamie (nuova ambientazione e personaggi comunque riusciti soprattutto dal punto di vista comico) potesse aprire a nuovi svelamenti e macchinazioni. Invece la sceneggiatura si è concentrata così tanto sul vissuto e sul passato dei personaggi e in particolare di Villanelle, da lasciare quasi ferma quella parte della storia, che culmina con una morte, quella di Paul, che non colpisce più di tanto in sé e per sé.

Ma volendo cercare il pelo nell’uovo, anche sul fronte Eve-Villanelle si poteva fare qualcosa di più. Ripartire dopo l’apice della seconda stagione, in cui Villanelle sparava a Eve e la lasciava per terra credendola morta, era sicuramente difficile, ma l’impressione è che le due ricomincino ad avvicinarsi… “perché sì”, perché la serie questo vuole, e non se ne può fare a meno. Manca però alla base una scrittura che giustifichi questo ricongiungimento in modo davvero soddisfacente.
La stessa ricerca di Villanelle da parte di Eve, nel corso di tutta la stagione, sembra perfino “immotivata”. Certo, si parte dalla morte di Kenny che è uno sprone forte per tornare al lavoro, ma è proprio la forza del loro ultimo incontro della stagione passata che sembra quasi dimenticata, come se bisognasse tornare in fretta alle vecchie dinamiche.

Per questo alcuni passaggi del finale, che pure sono potenzialmente molto forti, suonano un pochino forzati, come la citata scena di ballo in cui Eve discute con Villanelle di una loro potenziale storia romantica, in un modo che in quel momento sembra piovere dal nulla.
È un peccato perché, in realtà, il finale di stagione cerca di recuperare un po’ di tempo perso, riconcentrandosi sulla relazione fra le due protagoniste come mai era stato fatto negli otto episodi precedenti. Capiamo così, per esempio, che Villanelle vede in Eve l’unica persona con cui possa essere davvero se stessa, mostrando le proprie crepe e dismettendo una maschera da assassina che, a quanto pare, è più stressante di quanto credessimo.
E allo stesso modo Eve confessa a Villanelle, ma soprattutto a se stessa, che certi suoi demoni interiori, e perfino certe sue voglie di violenza (esplicitate con le ferite inflitte gratuitamente a Dasha), sono in qualche modo amplificate dalla presenza dell’amica/nemica, in un turbine di emozioni tanto entusiasmante quanto preoccupante.

L’ultima scena, in questo senso, è molto chiara nel mostrare l’influenza reciproca di due donne che, per motivi diversi, si fanno paura, ma anche l’impossibilità, per Eve e Villanelle, di lasciarsi reciprocamente perdere, come evidenziato dal fatto che entrambe provano ad allontanarsi definitivamente l’una dall’altra, senza però poter evitare di girarsi, ristabilendo una connessione.
Tutte cose che hanno senso e che funzionano, ma che arrivano come una specie “fermi fermi, ci eravamo dimenticati di parlare di questa coppia”, mentre nel resto della stagione si era parlato d’altro.

A questo punto, Killing Eve è a un bivio importante. Anzi, un vero e proprio incrocio di quelli complicati, pieno di possibili nuove direzioni. Sembra impossibile che si torni semplicemente dove eravamo prima, con una Villanelle pazzoide e super divertente, inseguita da una Eve semplice “poliziotta”. E già questa è una prospettiva spaventevole, perché quella dinamica è ciò che ha fatto la fortuna dello show. Ma l’evoluzione pare inevitabile, e qualunque sia la direzione (uno scontro ancora più duro? Un’alleanza per chissà quale motivo? Una storia d’amore contrastata ma “ufficiale”?), la speranza è che la serie riesca a mantenere il tono fresco e frizzante avuto finora, anche quando ha intrapreso le strade più oscure.
La prossima showrunner sarà Laura Neal, giovane sceneggiatrice al suo primo impegno importante (ha al suo attivo un episodio di Sex Education, due di Turn Up Charlie, e poche altre cose).
Ha ricevuto una bella patata bollente, vedremo come se la caverà.

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