24 Aprile 2020

Better Call Saul 5 Season Finale. Forse dovremmo chiamarla Better Call Kim… di Diego Castelli

Un’altra grande stagione di Better Call Saul e la crescita esponenziale di un personaggio che ormai è una colonna portante

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SPOILER SU TUTTA LA QUINTA STAGIONE DI BETTER CALL SAUL

È finita un’altra stagione di Better Call Saul, e come da tradizione siamo qui a tesserne le lodi.
In questi anni sono diverse le voci che hanno provato a sostenere che Better Call Saul fosse ormai meglio di Breaking Bad. Discussione tanto sterile quanto appassionante da fare con gli amici, e per quanto io non sia d’accordo (Breaking Bad non si può valutare solo per come è tuttora, ma va inserita nel momento storico in cui  arrivò, e nell’impatto che ebbe), il fatto stesso che questa discussione esista e sia considerata legittima, la dice lunga sui meriti di un “seguito” chiamato a reggere il peso di un’eredità fra le più pesanti della storia della serialità, riuscendo comunque a viaggiarsela in scioltezza.

La quinta stagione di Better Call Saul non è stata inferiore alle precedenti, e ci ha anche offerto prospettive e punti di vista che alla vigilia, forse, non ci saremmo aspettati.
Da una parte la storia si è sviluppata nel solco già conosciuto: nel finale della quarta stagione Jimmy McGill cambiava ufficialmente il suo nome in Saul Goodman, e l’inizio della quinta ci ha mostrato proprio il personaggio che conoscevamo da Breaking Bad, cioè l’avvocato maneggione che ne sa sempre una più del diavolo e riesce a divincolarsi da ogni situazione usando la sua parlantina, la sua morale un po’ labile, e una precisa capacità di cadere sempre in piedi (una qualità che Lalo Salamanca sintetizzerà nel paragone con lo scarafaggio, che pensi sempre di aver ucciso, e invece rispunta comunque).
Allo stesso tempo, però, Better Call Saul è sempre stata lo strumento con cui Vince Gilligan voleva mostrarci l’uomo dietro la maschera, cioè il Jimmy che a un certo punto ha avuto bisogno del Saul per sopravvivere. Ed è sempre divertente vedere come i due siano una specie di dottor Jekyll e Mr. Hyde, o Bruce Banner e Hulk, due entità unite eppure distinguibili, che spuntano alternativamente in base alle circostanze.
Se è vero che questa è la stagione della definitiva comparsa di Saul Goodman, è dunque altrettanto vero che Jimmy non sparisce mai, e anzi è proprio lui a subire le conseguenze peggiori dei casini in cui lo caccia Saul: i tre episodi finali, incentrati sull’odissea nel deserto e sulle sue conseguenze (anche in termini di stress post-traumatico) sono proprio l’esempio di come le due anime siano costrette a procedere parallelamente, risultando però perniciose una per l’altra. In particolare, l’impressione è che Jimmy possa rompersi da un momento all’altro, se lascia troppo spazio a Saul.

L’ottava puntata, quella nel deserto, è poi l’apice estetico della stagione: un racconto in puro stile Vince Gilligan, in cui la cornice del deserto assolato fa da palcoscenico per i personaggi, ma diventa essa stessa protagonista, o meglio antagonista, simboleggiando quell’aridità prima di tutto morale che già avevamo conosciuto in Breaking Bad. Un luogo (fisico e metaforico) in cui i personaggi sono chiamati a fare tutto ma proprio tutto quello che possono per sopravvivere, che siano truffe, omicidi, o abbondanti bevute di urina. L’essere “lasciati soli” è una costante della narrativa di Breaking Bad e Better Call Saul, un tema che non risparmia né buoni (Walter, Jesse) né cattivi (pensiamo a quanto è solo Fring, per esempio). In questo senso, la puntata nel deserto esplicita questo concetto mettendo fisicamente alla prova Mike e Jimmy-Saul, temprandoli quel tanto che basta per prepararli a sfide ancora maggiori.
Certo è, comunque, che Jimmy rimane più segnato dell’esperto Mike, e la sua capacità di essere Saul Goodman ne viene in qualche modo danneggiata, come se la paura per se stesso e per chi ama fosse troppo grande, in un momento in cui ancora non è sufficientemente in grado di gestirla.

Ma se Jimmy-Saul era e resta il protagonista della serie, nonché della puntata più memorabile della stagione, dobbiamo sottolineare che non è lui il personaggio su cui viene compiuto il lavoro più grosso durante questo ciclo di episodi. Non lui, non Mike, non Fring, nemmeno Lalo, che pure in questa stagione, e soprattutto nel finale, mette un carisma non da poco (ed è a lui che dobbiamo l’ottimo cliffhanger, in cui il Salamanca si salva dall’attentato ordito da Fring, e si prepara a una vendetta che si prospetta feroce).
No , il personaggio che più ci ha entusiasmato è senza dubbio Kim.
Rileggendo vecchie recensioni e serial moments, mi rendo conto che Kim, in qualche modo, ci è sempre sfuggita. Almeno a me. Per anni è sembrata sul punto di sbroccare, di non riuscire più a contenere e accettare l’indole pazzariella di Jimmy, opponendo una strenua, adulta ed eleganze resistenza che sapevamo essere necessariamente “a tempo”.
Quest’anno, però, qualcosa è cambiato. O meglio, l’inizio è sembrato lo stesso, con Kim impegnata a chiedersi cosa stesse facendo della sua vita, divisa fra cause legali in cui non credeva, e il mestiere di baby sitter per un tizio poco affidabile e completamente diverso da lei. A un certo punto, però, il twist: Kim propone a Jimmy di sposarla, e tutto cambia.

Ovvio, la proposta era legata a un ragionamento puramente avvocatizio, tale per cui Jimmy e Kim, da sposati, non avrebbero potuto testimoniare uno contro l’altra. Allo stesso tempo, è stato evidente fin da subito come il matrimonio avesse un valore simbolico che non poteva non pesare, e non poteva non cominciare a farci vedere Kim sotto una nuova luce.
Per anni abbiamo letto il suo personaggio come una donna forte e capace, resa in qualche modo zoppa da un sentimento, quello per Jimmy, che la portava a fargliene passare troppe, finendo lei stessa nei casini. E davamo per scontato che questa strada l’avrebbe portata o ad andarsene, o addirittura a finire male, ma comunque a non ricavare niente da una situazione in cui, in un modo o nell’altro, era da considerarsi una vittima.
L’ultima Kim, però, non è così. Quando l’abbiamo vista spaesata, in realtà stava covando qualcosa. Quando ha lasciato Mesa Verde, abbiamo pensato fosse un sinonimo di “mollare”, di “non farcela più”, ma la sfumatura era diversa: non era una reazione passiva, bensì un’azione deliberata, un prendere le redini.
Quando Kim difende Jimmy di fronte a Lalo, convincendo il pericoloso trafficante ad andarsene, non stiamo guardando una donna disperata, costretta per pura sopravvivenza ad agire in un modo che non sente suo, o da cui vorrebbe allontanarsi. Quello che invece scorgiamo è una specie di piacere primitivo, un tirare fuori le unghie che nasce sì da una reazione, ma che è prima di tutto un piacere completamente inaspettato e puramente personale.

Nell’ultimo episodio, quando Kim e Jimmy si rifugiano in un hotel in attesa di capire cosa ne sarà di loro, i ruoli improvvisamente (ma nemmeno troppo improvvisamente) si ribaltano: mentre Jimmy è impaurito ed esausto, e riflette sulla possibilità di lasciare Kim allo scopo di proteggerla, lei rilancia, e si mette a fantasticare sull’ipotesi di colpire in qualche modo Howard, che poco prima era andato a metterla in guardia contro Jimmy, ottenendo in risposta delle grasse risate. Alla fine, è lo stesso Jimmy a essere stupito e incredulo di fronte alla spregiudicatezza di Kim, che sembra davvero intenzionata a mettere in piedi qualcosa di losco per affossare Howard e portargli via indirettamente un sacco di soldi.
Per la prima volta dall’inizio della serie, il personaggio di Kim ha smesso di essere incasellabile. La donna ha ripreso in mano le redini della sua vita, e ora ci impedisce deliberatamente di predirne il corso. Poco importa che, prima, le nostre predizioni fossero più o meno corrette, il tema è che ci sentivamo di poterle fare, perché Kim era stabile e prevedibile, mentre Jimmy no. Kim era praticamente l’unica donna in un microcosmo di uomini, che in un modo o nell’altro, in buona o cattiva fede, credevano di avere il diritto di “occuparsi di lei”, che fosse proteggendola, usandola, sopportandola. Ora invece è Kim la scheggia impazzata, potrebbe rientrare nei ranghi, o potrebbe commettere crimini, potrebbe ammazzare qualcuno, o dare la vita per Jimmy, potrebbe diventare una paladina dei più deboli, o una carogna peggio di tutti gli altri.

Se Better Call Saul è una serie deputata a mostrarci la profondità di un personaggio che una volta consideravamo una macchietta, o una spalla, la quinta stagione va oltre, e prende quella che per lungo tempo abbiamo letto come una “spalla della spalla”, per elevarla a rango di persona a tutto tondo, né vittima né baby sitter né crocerossina, ma aspirante protagonista la cui sorte, a questo punto, diventa quasi più interessante di quella di Saul Goodman, del cui futuro (per lo meno quello a colori) già sappiamo parecchio.
Cinque anni, e non abbiamo perso una briciola di entusiasmo.



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