Locke & Key – Su Netflix un bel fantasy senza pretese di Diego Castelli
Nel mondo della tv, come nella vita reale, i curriculum non sempre riescono a dire tutto, ma qualcosa dicono comunque. Per esempio, Locke & Key, nuova serie fantasy-soprannaturale-horror di Netflix, tratta dall’omonima serie a fumetti di Joe Hill e Gabriel Rodríguez, è creata da Meredith Averill, Aron Eli Coleite e Carlton Cuse, che nei loro curriculum da produttori includono, fra le altre, Lost, The Good Wife, Heroes, Jane the Virgin, Jake Ryan, Bates Motel. Quindi insomma, non proprio gli ultimi arrivati in fatto di storie. Poi certo, è pur vero che quegli stessi produttori hanno firmato anche dei flop, però che senso avrebbe questa introduzione se li sottolineassi?
Quindi non lo farò.
Alla base di Locke & Key ci sono alcune idee molto precise che vanno subito al punto: il capofamiglia Rendell (Bill Heck), con moglie (Darby Stanchfield) e tre figli giovani, viene ucciso da un ragazzo per motivi non meglio chiariti. Vedova e orfani, a quel punto, si trasferiscono nella vecchia magione dei Locke, una villa gigantesca in cui i tre ragazzi scoprono presto alcuni artefatti magici: una serie di chiavi ognuna con poteri molto precisi, che inizialmente aprono a Tyler (Connor Jessup), Kinsey (Emilia Jones) e Bode (Jackson Robert Scott) un mondo fantastico da esplorare, e che con l’andare degli episodi cominciano a svelare molti elementi tutt’altro che giocosi sulla morte del padre.
Locke & Key, la cui versione originaria a fumetti ha vinto diversi premi, ma di cui colpevolmente non so nulla, punta dunque a mettere insieme vari elementi del fantasy e dell’horror. C’è la magia, nella sua versione più creativa e sognatrice. Ci sono dei protagonisti bambini o ragazzi, costretti ad affrontare insidie potenzialmente insormontabili ma che diventano gestibili con la forza del gruppo. C’è una vecchia casa stregata o simil-tale. Ci sono pericoli e creature dell’ombra che, qui e là, tirano su (o forse giù) il livello del fantastico puro, dandogli contorni orrorifici. E infine ci sono, sottesi a tutto questo, alcuni temi classici di questi generi, dalla crescita (e nello specifico, la crescita resa difficile da un trauma) alla capacità di gestire ed eventualmente superare i fantasmi del passato, che sono sempre lì ad allungare le mani verso il presente.
La cosa bella è che funziona più o meno tutto. Considerando il progressivo infittirsi della trama, che lavora su un discreto numero di eventi e personaggi in epoche temporali diverse (c’è l’influenza palese di IT di Stephen King, nel racconto di “generazioni cresciute” chiamate a sistemare vecchi errori e uccidere vecchi demoni), Locke & Key diventa molto presto un puzzle abbastanza ricco di pezzi, che finiscono tutti al loro posto con buon ritmo ed eleganza, senza mostrare eccessivamente le forzature inevitabili della scrittura.
La semplicità della serie, in fondo, sta già nel suo titolo, nel suo rimando alle chiavi e, naturalmente, a tutte le parole che assomigliano a “locke”, un cognome che ricorda serrature, lucchetti, ma anche blocchi psicologici intesi come grumi di traumi e negatività che vanno per l’appunto sbloccati per ottenere una maggiore serenità d’animo.
In dieci episodi c’è dunque spazio per tanti elementi: se nelle prime puntate l’intrattenimento è legato soprattutto alla giocosa scoperta delle chiavi e dei loro poteri, con sprazzi di bella creatività e buona messa in scena, con l’infittirsi della trama ci si comincia davvero a chiedere il più classico dei “come andrà a finire”, e i piccoli e grandi twist trovano ognuno il proprio posto con discreta naturalezza.
A voler essere pignoli, c’è nella parte centrale un momento di flessione in cui non c’è più nuova magia, e ancora non c’è la vera tensione verso il finale. Allo stesso modo, non tutti i personaggi trovano lo stesso livello di approfondimento, e qui e là vengono buttati lì temi apparentemente fecondi, ma che non maturano in niente: quando Kinsey seppellisce fisicamente la propria paura, la serie riesce a raccontare bene l’importanza delle emozioni negative, che nessuno di noi vorrebbe provare ma che giocano un ruolo importante nell’equilibrio psicologico di una persona (senza contare la loro proverbiale capacità di non farci fare cazzate); quando però la stessa Kinsey butta lì l’idea di uscire con due ragazzi contemporaneamente, si sente il brivido di un tema un po’ tabù che potrebbe essere sviscerato maggiormente, e che invece viene abbandonato praticamente subito, senza grande interesse.
Nel complesso, però, Locke & Key è una serie che scorre via liscia e senza intoppi vistosi, portandoci in un mondo ben costruito e stratificato, che non manca di strizzare l’occhio (come spesso accade in questi casi) a certi desideri reconditi di chi legge/guarda: inutile dire che tutti noi vorremmo avere in casa delle chiavi capaci di teletrasportarci ovunque, farci cambiare aspetto, o permetterci di rivivere certi momenti particolarmente significativi del nostro passato.
Pure il finale funziona, perché fa venire al pettine alcuni nodi psicologici fondamentali per i protagonisti, ma lascia pienamente aperta la porta per casini ancora peggiori nella seconda stagione.
In conclusione, una considerazione di contesto: mi pare di capire che il fumetto avesse un approccio un po’ diverso, ma Locke & Key resta una serie principalmente per ragazzi. E non nel senso che non possa essere apprezzata dagli adulti, ma nel senso che non supera mai un certo livello di complicazione o pesantezza che lo renderebbe inadatto a un pubblico più giovane. Una scelta che è parte della sua forza e della sua freschezza, ma che va tenuta in considerazione da chi cerca fantasy più oscuri o intrighi più cervellotici.
Ecco no, qui ci si diverte senza troppe pretese.
Perché seguire Locke & Key: è un fantasy-horror di buona creatività, girato con ritmo e con tanta carne al fuoco.
Perché mollare Locke & Key: se prediligete storie, atmosfere e tematiche più adulte, anche quando avete a che fare con magie e mostri, qui potrebbe sembrarvi tutto un po’ soft.