Watchmen 1×08: sempre meglio di Diego Castelli
La puntata tutta dedicata al Dottor Manhattan è un concentrato di creatività, suspense, filosofia e semplice goduria
È una cosa così rara, che quando succede dobbiamo avere la forza di riconoscerla pienamente, per poter vivere il momento come si deve. Watchmen era una delle serie più attese dell’anno, tratta da una delle opere più famose del Ventesimo Secolo, scritta da un autore (Damon Lindelof) particolarmente divisivo, e sulla quale c’erano quindi aspettative enormi e un ugual numero di potenziali hater pronti a dar battaglia.
Ebbene, non solo Watchmen è una serie della madonna, ricchissima, stratificata, ispirata, ma è anche una serie che cresce di episodio in episodio, che ogni volta sembra aver raggiunto il culmine della sua qualità e poi blam, un’altra botta subito dopo. Il sesto episodio era bellissimo, lodi da ogni parte. Il settimo, che poteva tirare il fiato, era pure meglio. L’ottavo, che pure si prometteva tosto e importante, ha superato le nostre aspettative. Non ci sono più aggettivi, è la novità migliore dell’anno e basta.
L’intenzione era quella di scrivere il consueto recap, ma forse è meglio evitare. L’episodio è così denso, e soprattutto così polverizzato in una grande quantità di piani temporali, che ripercorrerlo da cima a fondo rischia solo di produrre un articolo più lungo della puntata stessa, e non è il caso.
Adottiamo allora un approccio diverso, e cominciamo col dirci la cosa più importante. La 1×08 di Watchmen è incentrata totalmente sul dottor Manhattan, forse il personaggio più famoso del fumetto di Alan Moore nonché la sua anima più creativa, ardita, filosofica. I passaggi del fumetto dedicati al dottor Manhattan, e specialmente al suo esilio volontario su Marte, sono pagine da non dormirci la notte, che fondono fantascienza e poesia in una sintesi vertiginosa. Damon Lindelof, volendo/dovendo mettere in scena un personaggio di questa caratura, non poteva esimersi dal tentare di ricreare quella magia, perché di certo non poteva accontentarsi di offrire allo spettatore un banale dio blu con grandi poteri. E diamine, ce l’ha fatta anche stavolta, perché il dottor Manhattan di Watchmen (la serie) è proprio quello del fumetto, e ci restituisce la stessa vertigine.
Più che seguire pedissequamente l’episodio, cerchiamo di farne un riassunto per macro-aree.
Già l’inizio è frizzante, perché il titolo in sovraimpressione, “A God Walks into abar” (senza lo spazio fra la a e il bar, così che diventa il cognome della protagonista, dentro cui il dio cammina), è un giochino linguistico e pure vagamente sessuale che fa sorridere e lascia una sensazione di “oggi ci divertiamo”.
Poi comincia il degenero. Il Dottor Manhattan, nella sua forma blu opaco e con il viso momentaneamente nascosto da una maschera, incontra Angela per la prima volta. Siamo in Vietnam, dieci anni fa, e il superuomo ha molto da raccontare alla donna a cui si legherà per i dieci anni successivi. Soprattutto, le deve dire che sarà la sua donna per i dieci anni successivi.
Parlando molto esplicitamente, Doc spiega ad Angela quello che i lettori del fumetti già sapevano, cioè il fatto che lui percepisce il tempo e la realtà in maniera completamente diversa rispetto ai comuni esseri umani. Per il Dottor Manhattan non esistono passato, presente e futuro della sua vita. Lui ha una percezione del tempo completamente circolare e simultanea, per cui tutto ciò che gli è accaduto, gli accade e gli accadrà (nel punto di vista umano e lineare della faccenda) per lui sta accadendo sempre qui e ora. Un concetto interessante da ascoltare, ma di cui lì per lì possiamo fare poca esperienza. Per fortuna, però, tutto il resto dell’episodio, oltre che a portare avanti la storia della serie, è dedicato a farci provare quella vertigine, ad avvicinarci al punto di vista del dottor Manhattan attraverso strumenti classicissimi del cinema, cioè flashback e flashforward, usati però con un intento molto particolare e preciso.
Nel corso dell’episodio, mescolati e inframmezzati in vario modo, assistiamo a diversi momenti, ambientati in tempi e luoghi molto diversi. Mettiamoli un po’ in ordine, anche se, come ci direbbe il Dottor Manhattan, un ordine non c’è, sono tutti simultanei.
-Doc e Angela parlano in un bar. È la prima volta che si vedono, ma lui conosce già tutta la loro storia successiva, a parte il periodo in cui stanno effettivamente insieme a Tulsa, in cui lui è “anestetizzato” dal dispositivo inibitore ideato da Veidt. L’uomo (uomo?) spiega inoltre ad Angela che fino a quel momento lui è stato su Europa, una luna di Giove dove ha letteralmente giocato a fare dio, costruendo un paradiso terrestre e dando vita a due moderni Adamo ed Eva.
-Queste due creature sono niente altro che i due modelli dei cloni servitori di Veidt, e scopriamo che sono costruiti a immagine e somiglianza di due coniugi che Jon aveva conosciuto da bambino, quando col padre era fuggito in Inghilterra durante le persecuzioni naziste. Sono stati loro, dopo essere stati scoperti da Jon a fare sesso, a far promettere al bambino che avrebbe dedicato la sua vita a creare qualcosa di bello.
-In un’altra scena, Angela suggerisce a Jon di prendere la forma di un cadavere non riconosciuto, così da non destare sospetti. Ed è lei a scegliere il corpo a cui ispirarsi, convincendo Jon a trasformarsi in quello che sarà suo marito Calvin.
-Angela e Jon litigano finché lei gli dice di andare via. Una scena di breve durata, ma che trasmette il senso di frustrazione nello stare insieme a uno che sa tutto quello che succederà.
-Cacciato da Angela, Jon va in Antartide, dove Adrian Veidt sta ancora lavorando alle sue piogge di calamari, per continuare a preservare la pace nel mondo. Veidt ha già capito che Jon è andato da lui per chiedergli un modo per diventare uomo, e il geniale miliardario ha già ideato un congegno che, inserito nella testa di Jon, gli permetterà di cancellare la memoria di sé e dei propri poteri. La cosa curiosa è che Jon non sa nulla di questo oggetto, perché Veidt l’ha irradiato con dei tachioni in modo che la sua esistenza e natura fosse inconoscibile perfino all’onniscienza del Dottor Manhattan. In cambio del dispositivo, Veidt chiede che Doc gli conceda di vivere nell’Eden su Europa, di cui Jon si è già stancato, perché gli umani da lui creati sono così adagiati sull’amore per lui da essere diventati noiosi (e così finalmente scopriamo cos’è il posto da cui Veidt cerca di scappare dal primo episodio, anche se in questo momento ancora non sappiamo perché vuole uscirne).
-Altra scena in cui Jon, in forma di Calvin, parla con il nonno di Angela, che non sa nemmeno dell’esistenza di una nipote. Jon racconta a William tutto ciò che deve sapere su Angela e anche su Judd, in un momento in cui William non sa nemmeno chi sia questa gente.
-In una scena parallela, ma ambientata anni dopo quella precedente, Angela viene a sapere che Jon ha parlato col nonno, e in qualche modo riesce a parlarci anche lei, ma non perché “mandi la sua voce nel passato”, quanto perché suo marito vive ogni istante come il presente, e quindi può avvicinare le due conversazioni anche se queste sono formalmente lontane nel tempo (il Jon del passato sa cosa dirà e ascolterà quello del futuro, e viceversa).
-La Settima, che cerca Jon per distruggerlo e prenderne i poteri, arriva a casa di Angela. Lui sa di non avere scampo, ma lei non vuole arrendersi e si prepara a combattere. Per questo motivo, lui si innamora di lei, dieci anni dopo averci iniziato una relazione. Subito dopo la Settima attacca, Angela reagisce, Jon la aiuta e sembra avere facilmente la meglio su tutti, ma poi viene comunque assorbito dal cannone portato lì dai nemici, in un modo che a noi sembra quasi arrendevole, ma che dal suo punto di vista è semplicemente “già scritto”.
-Dopo i titoli di coda (avete visto la scena, vero?) scopriamo il motivo per cui Veidt vuole fuggire: il paradiso è diventato stretto anche per lui, perché ha bisogno di sentirsi utile, di avere uno scopo, ma in quel posto la vita non ha alcun senso, c’è solo adorazione e contemplazione.
Se questa è la fredda cronaca di quello che succede, ci sarebbe in realtà moltissimo da dire su come questi concetti sono messi in scena, e su quali strumenti (verbali e visivi) vengono usati per arricchirli, stratificarli, moltiplicarli.
Mi sento soverchiato dagli spunti, e non riuscirò a tenere insieme tutto, servirebbe una tesina di laurea solo per questo episodio. Ma di nuovo, cerchiamo di evidenziare alcuni passi importanti.
In primo luogo, si diceva della vertigine: ispirandosi al fumetto, che esplorava vari piani temporali permettendo a gesti e parole del dottor Manhattan di far emergere la simultaneità della sua percezione, Lindelof e la regista Nicole Kassell giocano con flashback e flashforward per costruire un’intricata tela di continui riferimenti interni, in cui tutta la storia di Doc e Angela, le parole che si scambiano, le azioni che compiono, sembrano avvenire tutte nello stesso momento, in una messa in scena che ci restituisce lo straniamento della donna, ma riesce in qualche modo ad avvicinarci anche al punto di vista divino del Dottor Manhattan, un punto di vista che non potremo mai esplorare “davvero”, ma che attraverso le tecniche cinematografiche possiamo in qualche modo “simulare”.
Magistrale, in questo senso, la scena del dialogo fra Angela e William, che comunicano a distanza di un decennio attraverso il perno temporale rappresentato da Calvin. E non è solo una scena che mette i brividi e sembra farci toccare l’infinito, ma è anche un momento che esplicita uno dei temi centrali di questo episodio e di tutta Watchmen: il libero arbitrio. Nel momento in cui Jon diventa superuomo e comincia ad avere percezione immediata di tutto il tempo della sua vita, si rende anche conto che ha perso la possibilità di “scegliere” il suo destino, che invece è simultaneo e immutabile, e gli lascia solo la possibilità di viverlo, senza cambiarne il corso. Non è un tema nuovo, nella storia della narrativa (e in particolare della narrativa sui viaggi nel tempo), ma raramente l’abbiamo visto raccontato con questa forza. Interessante, in questo senso, lo scarto con il punto di vista di Angela. Quando la donna si rende conto che è stata lei, attraverso Jon, a comunicare a William dell’appartenenza di Judd al Klan, inevitabilmente si sente in colpa, come se nel tentativo di sistemare tutti i casini dell’ultimo periodo fosse in realtà riuscita a causarli. Ma il concetto di colpa, nella prospettiva di Jon, sembra non esistere, perché nel momento in cui il fato è un Tempo continuamente presente, le azioni che compiamo non sono tanto “buone” o “cattive” quando piuttosto espressione di una realtà simultanea che è semplicemente così com’è, immodificabile.
Se riusciamo a sfiorare il punto di vista del Dottor Manhattan, però, non smettiamo di essere umani, e per questo proviamo grande frustrazione quando, alla fine, Calvin non si discosta dall’ultimo attacco della Settima, quello che lo annienterà. Istintivamente, non capiamo perché non abbia ucciso anche l’ultimo nemico. In realtà, pensandoci bene, quell’istinto varrebbe anche per tutte le altre scelte di Jon, compresa quella di incontrare Angela: Jon non si toglie dalla traiettoria del colpo perché sapeva che così doveva andare, come sapeva di dover incontrare Angela e di doversi innamorare di lei. Quello che ci sfugge è il “perché” di tutto questo, ma il Dottor Manhattan non sembra curarsene, perché l’eterno ritorno di un Tempo sempre presente è, nella sua percezione, giustificazione sufficiente all’esistenza di ciò che effettivamente esiste, e alla non esistenza di ciò che non esiste. Un’auto-legittimazione della realtà che il nostro cervello umano – per di più condizionato da millenni di religione che indica nella divinità il depositario di un senso inconoscibile ma pienamente esistente – non è in grado di cogliere del tutto, ma che è comunque capace di postulare.
Ciò che emerge da tutto questo impianto concettuale è una rigida visione deterministica, che ci viene venduta come “la realtà”, ma non necessariamente come “la realtà migliore possibile”. Accanto alla spietata ragionevolezza di Jon, Lindelof e soci piazzano anche larghi sprazzi di umana passione, e ce li mostrano in tutta la loro potenza e nobiltà. È lo stesso Jon, abbandonando il suo paradiso noioso, a riconoscere la bellezza intrinseca dell’imprevedibilità umana. Ed è sempre Jon che impara l’importanza del prendersi i rischi, affrontando le poche cose che gli sono rimaste ignote, perché è nel coraggio di superare le proprie paure che gli umani trovano ciò che ha valore (come l’amore per Angela, in questo caso). Ma è soprattutto Veidt a tenere alta la bandiera dell’umanità, prima riuscendo a mostrare la capacità del suo intelletto di superare, per certi versi, anche quello di una divinità, e poi mostrandoci, a posteriori, l’ostinazione di un uomo che, anche quando ha scoperto che un vero senso della vita non c’è, è disposto a tutto pur di tornare in un mondo che non imponga solo relax e contemplazione, ma anche la possibilità, banale eppure così importante, di “avere qualcosa da fare”. Non parliamo poi di Angela, che anche dopo aver sperimentato con mano la fondatezza delle verità di Jon, non esita un istante a combattere per lui, ricalcando il suo destino, certo, ma senza che questo tolga nulla alla sincerità della sua intenzione.
La morte del Dottor Manhattan (se davvero di morte di tratta) non è dunque la morte delle sue idee, come la fine dell’umanità non segnerebbe la fine della matematica che regola l’universo. Allo stesso tempo, la scomparsa dell’unico essere onnisciente ci riporta a una condizione di libero arbitrio “finto ma ugualmente funzionante”: se anche il libero arbitrio non esiste, finché nessuno può provarci che non esiste allora è come se esistesse, cosa che ci consente di mantenere un minimo di equilibrio nei nostri rozzi cervelli fatti di carne.
A conti fatti, questo episodio rappresenta una specie di parentesi all’interno della narrazione della serie, perché gli elementi che effettivamente si incastrano nella trama sono relativamente pochi (uno su tutti, la cattura di Doc da parte della Settima). Allo stesso tempo, però, la spiegazione di buona parte dei misteri che ancora aleggiavano sullo show ha l’effetto dirompente di aprire prospettive mai viste prima, di allargare il nostro sguardo dalle vicende poliziesche e supereroistiche di Tulsa a una prospettiva realmente cosmica, prendendo a martellate il nostro cervello per aprirlo nello stesso modo in cui Angela ha martellato quello di Calvin. In pratica, questo episodio è lo strumento con cui il nostro cervello di Calvin è stato liberato, permettendoci di diventare tutti insieme Dottor Manhattan. E nel momento in cui il dio blu muore, torniamo immediatamente umani, ma con la consapevolezza di aver sfiorato un potere che ora sappiamo essere obiettivo di un gruppo di cattivi che, se lo otterrà, potrebbe realmente cambiare le sorti dell’universo.
Che spettacolo signori. Che spettacolo.
Ma soprattutto, potrà la nona e ultima puntata essere ancora meglio? Non so immaginare come…
Varie ed eventuali che non sono riuscito a inserire coerentemente nella recensione, perché sono un banale essere umano:
-Nel corso della puntata non vediamo mai il volto originale del Dottor Manhattan, perché anche dopo il risveglio rimane legato alla forma di Calvin, benché in versione blu. Nel discorso che la serie ha fatto finora sul razzismo, non è una scelta banale, perché invece di “scartare” una forma transitoria per tornare alla sua (come se l’altra fosse inferiore), Jon mantiene una forma che è in qualche modo indifferente rispetto al resto. Dio, o per lo meno il dio di Watchmen, non è bianco, o nero, o altro, è quello che serve essere in un dato momento.
-Non mi è chiarissimo, se qualcuno ci ha capito di più me lo dica, il simbolo del ferro di cavallo finale, che Veidt riceve dal Philip originale (cioè il primo creato da Jon) e per il quale impazzisce di gioia, iniziando subito a usarlo come strumento di fuga. Mi son perso un riferimento? Al momento sono molto confuso, non tanto da chi sono, ma da quando sono.
-Sempre precise le scelte musicali, come il motivo malinconico che segue la sparatoria di Angela con quelli della Settima. Non c’è modo migliore, cinematograficamente parlando, per esprimere il senso di una catastrofe imminente e non evitabile, che poi è il senso di quella scena lì.
-Azzeccata anche la scelta di far camminare Jon sull’acqua della piscina. Di fatto il Dottor Manhattan è un “Dio in piccolo”, che crea un paradiso terrestre in miniatura su una luna che non è un pianeta. E così è pure giusto che abbia un momento-Gesù che però non è epico come l’originale, ma è appunto una camminata sull’acqua della piscina di casa.
-Delizioso il passaggio in cui Jon riconosce che con ogni probabilità potrebbe passare i suoi poteri a degli ipotetici figli, ma aggiunge anche che non li passerebbe mai a qualcuno senza il loro consenso. Per decenni abbiamo seguito le avventure di eroi che vivevano i loro poteri anche come una mezza condanna, ma sotto sotto non ci abbiamo mai creduto davvero, e abbiamo sempre pensato “tu comincia a darmeli, che poi me la vedo io”. E invece vedere un supereroe – molto super – farsi questo scrupolo (unito al fatto che lo vediamo incapace di emozioni vere che non siano una vaga soddisfazione intellettuale), ci fa pensare che forse dobbiamo davvero andarci cauti coi nostri desideri.