4 Dicembre 2019 9 commenti

Dollface – La versione legger(issim)a di Girls di Marco Villa

Dollface è una serie leggera con più invenzioni della comedy media. È superficiale? Sì, ma ci sta

Copertina, Pilot

Scusate se per parlare di Dollface non parto da trama e personaggi, ma da numero: 1993. È questo l’anno di nascita di Jordan Weiss, che firma la serie come creatrice e autrice. Brava lei, bravissimi a Hulu a darle fiducia per costruire una serie che parla di ragazze della sua età che vivono nella sua città. Detta così, sarebbe difficile pensare di affidare un progetto simile ad altri, ma non è così scontato. E lo è ancor meno guardando alla cosa dall’Italia. 

Però il risultato si vede subito, è evidente ed è riassumibile in una parola: immediatezza. Dollface è una serie che viaggia liscia e veloce, perché non ha bisogno di crearsi un contesto condiviso. Del resto, non stiamo certo parlando di chissà quale ambientazione complessa: siamo a Los Angeles e la “dollface” del titolo è l’insopportabile nomignolo con cui Jules (Kat Dennings) viene chiamata dal fidanzato. Fidanzato che diventa ex nella prima scena del primo episodio: lui la molla dopo cinque anni e lì inizia la serie, che segue i tentativi di Jules di ricostruirsi una vita individuale, dopo essere sparita nella coppia per tutto quel tempo. Jules ha infatti perso contatti con tutte le proprie amiche, annullandosi nella relazione e andando sempre a rimorchio del fidanzato. Il primo passo per ritrovare se stessa è ricostruire una rete di amicizie con altre ragazze che possano aiutarla, sostenerla e anche farla divertire.

Non è la trama della vita, lo sappiamo. Ma come sempre in questi casi è il tono a fare la differenza. A dirla in maniera iper-semplicistica, giusto per farci il titolo, Dollface è la risposta losangelina a Girls, specificando però che Girls è un capolavoro e di Dollface potremmo perdere le tracce tra qualche settimana. Risposta losangelina, dicevo, dove per “losangelina” si intende non solo la posizione geografica, ma tutto quello che la città si porta dietro. Quindi lo stereotipo della città superficiale, in cui i rapporti sono solo apparenza e tutti impazziscono per l’ultima moda in fatto di fitness e cibo salutista. Tornando a frequentare il mondo fuori di casa, Jules si ritrova al centro di questo vortice, che viene raccontato con toni surreali: dalla religione del brunch domenicale, celebrato in una chiesa sconsacrata con tanto di pastore a officiare, all’entusiasmo insensato da manifestare ogni volta che si conosce qualcuno. 

A questo si aggiunge poi la parte più folle di Dollface, dove “folle” è da intendersi in senso positivo: in ogni episodio ci sono infatti alcuni momenti in cui ci si stacca dal racconto realistico e si entra in un contesto da sogno. L’elemento ricorrente è una sorta di spirito guida con corpo femminile e testa da gatto, monito costante del rischio di diventare una gattare solitaria in caso Jules non si rimetta in carreggiata. Momenti passeggeri che punteggiano le puntate senza essere troppo presenti, in scia a quanto visto in altre serie come Crazy Ex Girlfriend.

Come già accennato in apertura, Dollface scorre via facile, forse fin troppo da un certo punto di vista. Pur raccontando una vicenda al 100% femminile, sceglie di non approfondire tematiche di genere, mantenendosi in superficie e preferendo la gag alla presa di coscienza. Scelta legittima, che però non mancherà di attirarsi critiche. Al netto di questo, Dollface è una serie leggera, che fa il suo e che aggiunge anche spunti e idee che normalmente mancano alla comedy media. Tutto questo firmato da una classe 1993, non dimentichiamolo.

Perché guardare Dollface: per le invenzioni narrative e la facilità di fruizione

Perché mollare Dollface: perché rimane volutamente superficiale

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