Il Nome della Rosa – Una questione di aspettative di Marco Villa
Diciamolo: se Il Nome della Rosa fosse stata una serie inglese come tante, nessuno avrebbe detto niente
Se c’è una cosa che non va mai fatta in apertura di un pezzo è mettere le mani avanti o fare disclaimer. Questa è quindi una cosa doppiamente sbagliata, perché è un disclaimer di un disclaimer. E però, arrivando con un paio di giorni di ritardo rispetto alla messa in onda e avendo letto commenti di ogni tipo, è il caso di dire che no, qui non troverete confronti con il libro, non troverete confronti con il film. Semplicemente perché boh, non l’abbiamo mai fatto, quindi che senso avrebbe farlo proprio oggi con Il Nome della Rosa.
Partita con ottimi ascolti il 4 marzo su Rai 1, Il Nome della Rosa è la serie kolossal co-prodotta in Italia e Germania e già stravenduta ovunque nei vari mercati dell’audiovisivo. Un prodotto di un certo peso, insomma, di quelle che invitano a fare il classico distinguo tra fiction e serie. La storia non ha molto senso che la racconti: nel ruolo del saggio Guglielmo da Baskerville c’è John Turturro, il suo discepolo Adso è il fisicato Damian Hardung e il perfido inquisitore Bernardo è Rupert Everett. L’arrivo di Guglielmo e Adso in un’abbazia in vista di un confronto teologico con l’ala oltranzista della chiesa coincide con l’inizio di una serie di omicidi, che i monaci – e in particolare l’abate, interpretato da Michael Emerson (il Ben Linus di Lost) cercano di coprire in ogni modo. Ogni frate ha la sua storia, spesso legata a un passato violento e decisamente complicato.
Il cuore del Nome della Rosa è l’indagine portata avanti da Guglielmo. E dico “indagine” perché la parte che si svolge all’interno dell’abbazia ha tutte le caratteristiche del crime. Un crime anche molto classico, senza particolari picchi, se non per il fascino della location e la bravura di Turturro, che merita di essere apprezzata in lingua originale (opzione disponibile su RaiPlay). Non per essere blasfemi nei confronti di Eco, ma non siamo lontani dalle atmosfere di Ellis Peters e del suo fratello Cadfael, frate-indagatore protagonista di decine di romanzi. Poco? Può essere, ma di sicuro niente di tragico.
La parola “tragico” è invece quella che si fa largo quando si esce dall’abbazia e si passa a scene ambientate in luoghi (e tempi) altri. Per dire, la parte legata a Fra Dolcino (Alessio Boni) che ha luogo nella seconda puntata è qualcosa di imbarazzante nei toni, nell’enfasi, nel modo in cui non si lega per nulla a ciò che l’ha preceduto e seguito, al punto di uccidere anche la buona interpretazione di Fabrizio Bentivoglio, frate che ha dei trascorsi nelle file dell’eretico Dolcino.
Mettete insieme le parti positive e quelle negative e avrete un bilancio sostanzialmente in pari, che di fatto non può essere stroncato. Dipende tutto dalle aspettative: se vi aspettavate di guardare qualcosa di epocale, resterete delusi. Intendiamoci, non si tratta di un’aspettativa per forza di cose falsata, ma non si può tarare un giudizio solo su quello che si sarebbe voluto vedere. Fosse stata una serie inglese, Il Nome della Rosa verrebbe archiviata semplicemente come “una delle tante”. Essendo italiana, invece, subisce un trattamento differente. Dopo i disclaimer iniziali, ne piazzo anche uno alla fine: tutto quello che ho scritto ha senso solo se guardate la serie in lingua originale, perché il doppiaggio è terribile. Avremo anche il miglior doppiaggio del mondo, dei veri artisti, ciononostante… ecco, avete capito.
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