True Detective è tornata a casa di Marco Villa
Dopo il flop della seconda stagione, True Detective è tornata alle origini ed è ripartita con solidità
Una serie che po’ esse fero e po’ esse piuma. Che può essere il fenomeno di un decennio o la più grande delusione (e qui metto un asterisco che riprendo più avanti). Voi provate a immaginare cosa possa essere successo nella testa di Nic Pizzolatto quando, contro ogni aspettativa comune, da HBO l’hanno chiamato per dirgli che sì, nonostante tutti i casini fatti con la seconda stagione e il suo plot – diciamo così – diversamente chiaro, erano disposti a scommettere ancora sul suo mondo. Al di là di possibili contratti e burocrazie, un’eventualità tutt’altro che scontata, che non solo permette a Pizzolatto di rimettersi in gioco, ma gli regala anche la possibilità di non passare alla storia della televisione come quello che ha inventato E ucciso True Detective. Ecco, immaginando quella telefonata fatidica, dopo aver visto il primo episodio non è difficile ipotizzare che il messaggio sotteso a tutta la chiacchierata fosse uno e uno solo: “Nic, non facciamo cazzate: True Detective è quella della prima stagione”. E allora il nostro Nic cosa poteva fare? Solo una cosa: tornare il più vicino possibile a storia e atmosfere della prima stagione, fermandosi due passi prima di autodenunciarsi per plagio.
La terza stagione di True Detective è in onda su HBO dal 13 gennaio e in contemporanea in Italia su Sky Atlantic, scritta da Pizzolatto con il supporto di un vate come David Milch (Deadwood), è in parte diretta dallo stesso creatore. Come accade in tutte le serie antologiche, presenta nuovi personaggi e interpreti: i due detective protagonisti sono Wayne Hays e Roland West, interpretati da Mahershala Ali e Stephen Dorff. Sul personaggio di Dorff per il momento soprassediamo, perché l’evidente protagonista dell’avvio di stagione è Ali. Nel 1980, Hays indaga sulla sparizione di due ragazzini, fratello e sorella, da una di quelle cittadine della provincia americana che istintivamente conosciamo meglio di Campobasso. Una storiaccia, in cui sembra emergere qualche ritualità, che finisce per segnare la vita di tante persone, compresa quella del detective, che dieci anni dopo si ritrova alle prese con la riapertura del caso e che ai nostri giorni torna su quella vicenda nell’ambito di un documentario televisivo. Quindi: provincia americana, sparizione con feticci, diversi piani temporali di indagine. Per completezza: sì, ci sono anche i dialoghi in macchina. In apparenza tutto molto simile a quanto già vista in passato, ma il piano temporale presente è fatto apposta per mettere in dubbio anche quelli passati, perché il detective Hays forse non è un narratore del tutto affidabile.
L’ho detto: la terza stagione di True Detective si ferma a un passo dall’autoplagio, ma è una strada comprensibile, perché l’unica in grado di dare sicurezza al network e all’autore, sapendo di trovare una sponda anche nel pubblico. La domanda successiva è ovvia: ce ne può fregare qualcosa di un mezzo remake di questo tipo? Qui in parte si entra nel soggettivo, in parte non si può fare a meno di ricorrere alla parola “genere”, perché questa stagione riporta la serie nel solco più classico del genere noir, mettendo in scena gran parte delle caratteristiche fondanti di questo filone. Se quindi ci si approccia a questi episodi come a una serie di genere, non si può non essere soddisfatti, perché tutto è al posto giusto e tutto funziona, atmosfera compresa.
In questo senso, il confronto con la prima stagione è piuttosto insensato, perché il mito di True Detective non nasce da singoli elementi di scrittura, regia o interpretazione, ma dall’insieme di tutto questo: dalla storia di esordio di un autore che la masticava e rimasticava da anni (avete letto il suo romanzo Galveston?), da un regista che aveva una fame incredibile e che infatti poi è andato a prendersi le sue soddisfazioni e soprattutto da un interprete in un momento di grazia assoluta, nell’anno migliore di tutta la sua carriera. La tempesta perfetta, una di quelle cose che non puoi creare a tavolino, ma che semplicemente succedono e tu devi essere bravo ad apparecchiare. HBO fu brava a farlo ed è stata altrettanto brava oggi a ridare questa chance a Pizzolatto.
La terza stagione di True Detective parte bene perché torna all’essenziale, a un racconto noir di base, senza le complicazioni a scatole cinesi della seconda stagione. Ecco, in chiusura spiego quell’asterisco iniziale: la seconda stagione di True Detective non è il male assoluto. È cervellotica, complessa, esageratamente intricata, ma ha pagato soprattutto lo scotto di venire dopo il boom di quei primi otto episodi. Era naturale che venisse accolta a suon di confronti, ma questo approccio è molto meno logico a distanza di cinque anni dalla comparsa di Rust Cohle. Let True Detective be True Detective, please.