The Romanoffs – A conti fatti ci aspettavamo di più di Diego Castelli
L’attesissima serie di Matthew Weiner sfoggia eleganza e precisione, ma non ti si pianta in testa come avrebbe dovuto
A distanza di un paio di settimane dalla messa in onda (o meglio, dal caricamento su internet) dell’ultimo episodio di The Romanoffs, era necessario fare un punto della situazione.
Dei primi due episodi dell’attesissima serie di Matthew Weiner avevamo già parlato, e ci eravamo detti come quelle due puntate insieme riuscissero a dare l’idea di un percorso che, da sole, non riuscivano a sottolineare.
L’idea – nel racconto antologico di tante persone diversissime, accomunate dal semplice fatto di discendere dalla stirpe dei Romanoffs – era quella di una metafora dell’Occidente, che come l’antica stirpe russa sta decadendo sotto i colpi di nuove spinte sociali, etiche e politiche. Una decadenza di cui i personaggi non sembrano avvedersi, presi come sono dai loro piccoli egoismi, dalla cattiveria, dalla cura spasmodica del proprio misero orticello.
Era una chiave non immediata, ma interessante, che prometteva sviluppi potenzialmente gustosi.
Che non ci sono stati. Oggi, a stagione finita, siamo qui a dire che The Romanoffs è almeno in parte un’occasione mancata, specie se si considera la fama del suo creatore e la portata epocale del suo lavoro precedente (Mad Men).
In realtà, di cose buone in The Romanoffs se ne trovano eccome. La serie è costruita come una vera e propria sperimentazioni sui generi – dalla commedia romantica all’horror, dal grottesco al thriller – e diventa ben presto un compendio di tecniche collaudate ed efficaci per ottenere precise risposte nello spettatore. Il tutto condito da una precisione formale sempre rigorosa, e da un cast quasi sempre all’altezza. Se certi episodi sono più riusciti e altri meno (dopo vediamo con un minimo di dettaglio in più), stiamo sempre parlando di “pezzi” dall’alto valore formale, calibratissimi in tutte le loro componenti, senza un’unghia fuori posto che non sia pensata e voluta in un certo modo.
A mancare, però, sono anima e crescita. In primo luogo, gli otto episodi risultano così finemente cesellati, da essere quasi sempre freddi, emotivamente bloccati, legati mani e piedi a una forma che soffoca qualunque vera empatia. Molto diverso da ciò che avveniva in Mad Men, dove c’era sì la perfezione formale, ma anche una tensione costante che attraversava il vissuto di tutti i personaggi. Naturalmente non tutti gli episodi presentano lo stesso problema nello stesso modo: è evidente che l’odissea genitoriale della 1×07 (End of The Line) è molto più carica del racconto di bugie woodyallenesco della 1×04 (Expectation). Ma l’impressione generale è che raccontando tanti tv movie slegati fra loro, Weiner non sia riuscito a sfruttare uno dei valori fondanti della serialità, cioè l’emozione che nasce nel seguire certi personaggi per un tempo che vada oltre quello di un (breve) film.
Ma a mancare è soprattutto lo sviluppo tematico: dopo i due episodi iniziali, che segnavano una traccia seppur pallida del discorso intrapreso, ci si aspettava un crescendo filosofico ed emozionale che rendesse la riflessione da una parte più esplicita, dall’altra più ficcante. In realtà, Weiner ha continuato a lavorare sullo stesso nucleo tematico (l’eogismo di chi mente per se stesso, di chi giudica gli altri in base ai propri interessi, di chi arriva a fare cherry picking dei neonati pur di soddisfare solo i propri desideri) senza però mai affondare il coltello in modo da dare una visione più generale del problema.
Il compito di mettere insieme i pezzi del puzzle è lasciato allo spettatore, che nel farlo però partecipa a un gioco intellettuale che ha certamente senso, ma che perde di forza nel momento in cui è sostenuto in maniera troppo blanda dalla costruzione narrativa.
È come se Weiner avesse scritto un trattato, o un saggio, e ce l’avesse venduto come un romanzo. Entrambe le forme sono legittime, ma vendere una per l’altra rischia di essere controproducente.
Ci sono episodi in cui pregi e difetti si presentano in misura differente.
Il citato End of The Line è un dei migliori: mettere in scena il desiderio genitoriale di una coppia disposta ad andare fino in Russia per adottare un bambino, e poi farlo scontrare con la loro difficoltà ad accettarne uno “difettoso”, è una perfetta rappresentazione di quell’egoismo tutto occidentale in cui perfino le persone sono strumenti per la nostra comodità, e smettono di essere interessanti quando mostrano di non potercela fornire. In questo, concentrare l’insofferenza quasi tutta sulla madre dà ancora più forza al concetto, perché mostra l’esilità morale di chi, tradizionalmente e stereotipicamente, dovrebbe essere più pronta all’amore.
Molto bello anche l’episodio finale, The One That Holds Everything, in cui un complicato (e ben gestito) gioco di flashback incrociati ed elaborate bugie si trasforma in una storia di riscatto ma soprattutto di vendetta, in cui il male subito non può che tramutarsi in male perpetrato.
L’episodio meno efficace è probabilmente il quinto, Bright and High Circle, aspramente criticato da chi, nella storia dell’insegnante gay accusato di molestie che non ha mai commesso, ci ha visto il tentativo di Matthew Weiner di difendersi dalle accuse da lui stesso ricevute, raccontando il dolore dei falsamente accusati come prioritario rispetto al dolore delle vere vittime. Per quanto mi riguarda, non mi scandalizzo su questo specifico punto, nella misura in cui non so se Weiner è colpevole o meno: se lo è, e ha scritto un episodio del genere, è uno stronzo, se non lo è, ha semplicemente scritto un episodio semi-autobiografico, e ci sta. Quello che conta, in mancanza di ulteriori informazioni, è che è un episodio artisticamente povero, senza guizzi, in cui la volontà quasi pedagogica nell’affrontare il tema rende il tutto tremendamente banale.
Idem per Panorama, in cui la storia d’amore fra un reporter codardo e vagamente viscido e la madre di un bambino malato che il protagonista incontra per caso, è semplicemente noiosa dall’inizio alla fine, senza che si riesca a dare uno sviluppo davvero interessante a un concetto che è chiaro fin dai primi minuti.
Siamo insomma in presenza di un prodotto che ha i suoi pro e i suoi contro, il suo stile e i suoi inciampi, che di per sé magari non scalda il cuore, ma sarebbe comunque capace di offrire qualche ora di interessante ricerca televisiva.
Il problema vero sono le aspettative, che in questo non potevano essere eluse: troppo grossa la fama di Weiner, troppo imponente la promozione di Amazon, che su The Romanoffs ha basato mesi di campagna, come se stessimo per vedere un epocale evento “televisivo” (virgolette sempre d’obbligo). A conti fatti non è stato così: The Romanoffs è una serie che abbiamo visto volentieri, ora più ora meno, ma che ci ha lasciato poco, che faremo fatica a ricordare davvero nei mesi e anni a venire. Soprattutto, una serie che inizia un discorso potenzialmente interessante, ma che poi si adagia sulla sua forma come se da sola bastasse a diventare leggenda. No, di sicuro basta per non finire nel calderone delle serie brutte, o anche medie. Ma per la leggenda serviva uno sforzo in più.