You – Il finale controverso di una serie controversa di Diego Castelli
Dobbiamo scavare a fondo nel finale di una serie con tanti pregi, ma che mostra trappole potenzialmente impreviste
SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE
A conti fatti, You è una delle serie tv più interessanti degli ultimi mesi, cosa che non mi sarei aspettato da un prodotto di Lifetime, rete solitamente molto più basica nella scelta delle storie e del loro trattamento.
Non ho usato il termine “interessante” a caso, perché invece di una risposta immediata e totalizzante (che fosse positiva o negativa), in queste settimane You ha sollevato diverse domande complicate, non solo sul suo valore prettamente artistico (“ma sto guardando una figata o una minchiata?”) ma anche sul suo spessore etico e morale, ragionamento che di solito facciamo poco sulle serie tv. Dico facciamo in generale, ma anche specificamente come Serial Minds.
Il motivo del disagio l’abbiamo sondato anche con i serial moments, di settimana in settimana: You racconta di uno stalker assassino, un ragazzo con evidenti problemoni che si innamora (un amore malato, ossessivo, patologico) di una ragazza per la quale arriverà a uccidere barbaramente diverse persone e infine pure la ragazza stessa. Col passare degli episodi, ci siamo immersi sempre più in una psicologia che, anche e soprattutto attraverso il voice over, cercava di razionalizzare qualunque scelta, anche la più assurda o illogica, costringendo lo spettatore ad adottare un punto di vista che naturalmente sapeva essere sbagliato.
Ma è davvero così? Lo sappiamo che è sbagliato? Oppure c’è un limite sottile ma decisivo oltre il quale una serie come questa rischia di sforare nell’apologia di reato?
Non riuscivo a mettere completamente a fuoco la questione, allora ho letto un po’ qui e là. E forse l’analisi più feconda per il mio cervello (anche se poi non sono d’accordo in più punti) me l’ha offerta Jessica Goldstein di Vulture (la trovate qui).
Concentrandosi sull’ultimo episodio – in cui Beck viene imprigionata da Joe e, malgrado i tentativi di intortarlo per fuggire, finisce con l’essere uccisa dal suo stalker in una scena che nemmeno vediamo, perché si passa dal suo essere a un passo dalla libertà, a vedere i suoi libri postumi sul bancale della libreria – la Goldstein boccia sonoramente la serie, che pure fino a quel momento l’aveva tutto sommato divertita.
Secondo la giornalista americana, You diventa moralmente deprecabile e artisticamente povera nel momento in cui non cambia mai prospettiva, adagiandosi dall’inizio alla fine sul punto di vista di Joe. Nella sua opinione, la serie ci offre sempre e solo un’interpretazione degli eventi, quella del protagonista, senza mai allargare lo sguardo, finendo quindi con l’abbracciare la visione del mondo del pazzo omicida: un pazzo riconosciuto che però sembra avere ragione su molti punti (l’insipienza delle amiche di Beck, l’influenza negativa di Benji, i pericoli corsi da Paco e da sua madre), e che non lascia spazio ad alcuna introspezione della sua vittima.
In questo senso, in una storia che pure sembra voler sondare i difetti e le crepe di un modello romantico-hollywoodiano che ci inculcano in testa fin da piccoli, You finisce col ridurre Beck a un puro oggetto, di fatto comportandosi come Joe, senza mai darle la possibilità di avere un suo spessore, onore che spetta solo al maschio dominante dello show.
Il finale, con la morte di Beck e il salvataggio di Paco e della madre da parte di Joe, diventerebbe quindi colpevolmente banale, perché non lascerebbe mai a Beck la possibilità di un riscatto. In sostanza, la Goldstein si aspettava il twist con Beck che riesce in qualche modo ad avere ragione di Joe e salvarsi.
Ora però io mi chiedo: sarebbe stato davvero quello, il “twist”? O non è piuttosto vero che proprio l’autosalvataggio di Beck sarebbe stato la conclusione banale e scontatissima di una storia che invece aveva bisogno di andare da un’altra parte?
Devo aprire una parentesi breve ma doverosa. Il mio disaccordo con l’analisi di Vulture si allarga a un concetto più generale, che riguarda il famigerato “politically correct”. È palese che You arrivi a raccontare di violenza sulle donne in un periodo storico molto delicato, prendendosi forti rischi (e secondo me toppando alla grande in almeno un elemento, ma ne parliamo dopo). Allo stesso tempo, mi sembra che Jessica Goldstein inciampi proprio in una stortura tipica dei nostri tempi: quella di chi vorrebbe sacrificare qualsiasi moto artistico della serialità al valore simbolico che quel moto potrebbe avere nella realtà extratelevisiva.
Sì, è necessario che ci sia più spazio per le minoranze, più approfondimento, meno macchiette, e sguardi diversi da quello maschio-bianco-etero che tuttora domina la produzione cinetelevisiva. Ma questo non significa che tutte le storie, a prescindere da cosa raccontano e da chi le racconta, debbano presentare tutte quelle sfumature. L’allargamento delle prospettive e delle voci dovrebbe riguardare la produzione culturale nel suo complesso, non ogni-singola-storia, altrimenti diventa un pastrocchio. Né tantomeno la finzione può essere considerata pari alla realtà, come quando c’era chi protestava per lo stupro subito da Sansa Stark in Game of Thrones come se Sansa fosse una persona reale sacrificata all’altare dell’intrattenimento.
Di quest’ultimo tema avevamo parlato anche in tempi pre-metoo e non abbiamo cambiato posizione: fare la morale a una serie di finzione, come se quello che vediamo sullo schermo fossero eventi realmente accaduti e filmati, è di per sé un insulto all’intelligenza.
A questo punto la Goldstein ricorda un bel discorso di Natalie Portman, che chiedeva ai professionisti di Hollywood di provare a stare un anno senza mettere in scena storie di violenza sulle donne, per vedere l’effetto che fa. Una provocazione tutt’altro che banale, nella misura in cui ci si chiede (e la risposta non è scontata) se la messa in scena ossessiva della violenza, anche quando esplicitamente condannata, non corra però il rischio di sdoganarla come inevitabile, proprio mentre cerca di mostrarne il pericolo.
È un appello che per me ha molto senso, ma solo a monte del processo produttivo. Non ce l’ha detto il dottore che ogni anno si debbano produrre tot film e tot serie che raccontano la violenza sulle donne, e non ci sarebbe certo alcun problema a scrivere di altro. Ma nel momento in cui si decide di farlo, ecco che inizia un meccanismo artistico e produttivo che deve seguire certe logiche e prendere certe direzioni, pena la sua totale inconsistenza.
In questo senso, You è tutt’altro che una serie stupida e con un finale banale. Tratta da un romanzo a cui rimane (così mi pare di capire) piuttosto fedele, e che peraltro è scritto da una donna, You vuole sondare la psicologia di un pazzo criminale come forse mai nessuna serie aveva fatto, e cazzarola, ci riesce. Se pensiamo a Dexter, lì avevamo un killer che sapeva di essere in torto, elaborava un codice di condotta che gli permettesse di vivere con il suo disturbo (uccidendo solo i cattivi), e andava in panico ogni volta che rischiava di venire meno alle sue regole. C’era sì il Male, insomma, ma anche il protagonista, oltre allo spettatore, era in grado di riconoscere il Male in quanto tale adottando un punto di vista in qualche modo “altro da sé”.
You rappresenta il passo successivo: Joe ci racconta le vicende dal suo punto di vista, e mai una volta mette in dubbio il suo operato in quanto frutto di follia. Il viaggio a cui autori e autrici di You ci invitano, è un percorso al di fuori della nostra consueta comfort zone spettatoriale, alla scoperta di una mente intellettualmente funzionante, ma profondamente disturbata.
Perché il viaggio funzioni, artisticamente e tematicamente, è necessario che Beck sia un personaggio un po’ piatto, perché il punto è proprio vedere il mondo solo attraverso gli occhi di Joe: se l’operazione, per par condicio e politically correct, comprendesse anche altri punti di vista, ne uscirebbe inevitabilmente depotenziata. Il gioco funziona perché “You” è una serie sull’”I”, cioè sull’Io, un racconto in cui quello che a tratti ci sembra vero amore è in realtà un’ossessione che prescinde dalle qualità dell’oggetto dell’amore, e che basta a se stesso, in virtù della sua insanità.
Se la prima stagione di You fosse finita con la fuga di Beck, sarebbe stato estremamente banale, per nulla coerente col percorso fatto fino a quel momento, e francamente pure poco realistico: quello che esploriamo è la capacità di menti come quella di Joe, di vedere anche la morte della persona amata come conseguenza inevitabile e moralmente accettabile di una serie di rapporti di causa-effetto. Quante volte ci imbattiamo in fatti di cronaca nera dicendo “ma come è possibile che questa persona abbia fatto quello che ha fatto?” Ecco, You prova a darci una risposta, mi sembra che in buona parte ci riesca, e solo per questo merita un plauso.
Occhio che però non ho finito, portate pazienza ancora un attimo. Questa era la mia risposta all’analisi della Goldstein, il mio “no che Beck non poteva salvarsi solo perché così sarebbe stato moralmente più accettabile”. Ciò non esclude, però, che esistano altri problemi.
Mi arrovello da tutta la stagione su questo tema, e per alcuni tratti mi sono pure sentito spinto verso le posizioni di Vulture. Ma alla fine, sperando di aver compreso bene il mio disagio, dico che il problema non sta nella superficie, ma in profondità, nella struttura stessa del prodotto.
You propone un percorso studiato, dichiaratamente controverso e delicato, ma a cui rimane coerente fino in fondo, prendendo scelte precise per ottenere un effetto preciso. Non credo si possa biasimarla per questo. Alla fine, però, emerge un disagio sotterraneo, meno palese, e che forse è sfuggito al controllo della scrittura: se è vero che lo spettatore normale non perde mai davvero di vista i suoi valori e la sua moralità (si spera, per lo meno), è altrettanto vero che, dopo il finale, in chi ha apprezzato la serie viene instillato in maniera quasi automatica un desiderio: che Joe riesca a vincere anche la battaglia successiva, ammazzando pure Candace e arrivando così alla terza stagione.
Eccolo qui il problema, che non attiene tanto alla storia che You racconta, quanto al meccanismo seriale su cui la costruisce. Il discorso è simile a quello di The Handmaid’s Tale, dove la necessità di prolungare la serie impone nuove violenze e vessazioni sulle protagoniste, rendendo sempre più labile il confine fra un racconto di riscatto femminile, e una pornografia del dolore che sguazza nel fatto che quel riscatto viene costantemente posticipato.
Per You è la stessa cosa: seguiamo un killer maschio nel suo costante tentativo di autoassolversi dai suoi peccati, capiamo il senso di questa operazione, ma finiamo la stagione con il (neanche troppo) segreto desiderio che la serie che ci è piaciuta possa proseguire, cosa che comporta nuove violenze, nuove molestie, nuove vittime.
You ci presenta un punto di vista, e non ci dice mai che quel punto di vista sia quello giusto. Ma mentre ci dà gli strumenti per comprenderlo (dove comprendere non significa “giustificare”), ci inietta alcune ossessioni impreviste: non l’ossessione maniacale verso un oggetto di finto-amore, bensì l’ossessione seriale verso la prosecuzione di una storia, indipendentemente dalle vittime che essa porterà con sé.
Dubito che qualcuno di noi diventerà uno stalker, o semplicemente “più cattivo con le donne”, guardando You. Cioè, cazzo, speriamo di no. Ma sapendo quanto la narrazione audiovisiva sia pervasiva e potente, specie in questi anni di sovrabbondanza, vale comunque la pena di tenere occhi e orecchie bene aperti, anche nei confronti di trappole impreviste in cui certi autori potrebbero inciampare pur in buonissima fede.
Banalmente, potrebbe essere importante sapere quando è il momento di fermarsi, appena prima che il senso del proprio messaggio diventi invisibile sotto una superficie narrativa così diluita, da costringerci a una visione pericolosamente superficiale in cui la devianza, dopo essere stata “studiata”, finisce con l’essere “normalizzata”.