Stan Lee è morto. Francamente non lo credevamo possibile. di Diego Castelli
Se ne va l’uomo simbolo della Marvel, uno a cui tutti dobbiamo qualcosa
Per lungo tempo abbiamo pensato che fosse immortale. Un po’ perché aveva quella faccia, quelle movenze, quella figura, da prima che molti dei suoi fan nascessero. E un po’ perché pensavamo ingenuamente che l’immortalità dei suoi personaggi (culturale, economica, narrativa, a volte perfino biologica) fosse riuscita a contagiare un po’ anche lui.
E invece no. Contro ogni pronostico, anche il novantacinquenne Stan Lee, padre dei più famosi eroi Marvel che ancora oggi macinano fumetti, film, serie tv, giocattoli e passioni, se n’è andato.
In questi giorni internet si inonderà di ricordi e biografie scritte da persone più competenti di noi, quindi evitiamo anche di provarci a raccontare nel dettaglio la carriera di un uomo che è effettivamente entrato nella leggenda.
Basterà solo ricordare, in quello che diventa anche una specie di messaggio di speranza per tutti coloro che vorrebbero lasciare un segno nel mondo con la loro creatività, che il nocciolo della rivoluzione firmata da Lee è circoscritto a un numero ristretto di anni. Nel 1961, in compagnia di Jack Kirby, Stan Lee crea i Fantastici Quattro, e di lì a non più di quattro-cinque anni dà vita a uno straordinario pantheon di supereroi (L’Uomo Ragno, Hulk, Thor, Iron Man, solo per citarne alcuni), a cui si aggiunge la rivitalizzazione di grandi classici del passato (come Capitan America).
Sta quasi tutto lì, pochi anni in cui Stan Lee cambia per sempre il mondo dei fumetti e, lo vediamo ancora oggi, anche quello del cinema, della serialità televisiva, e di tutta la cultura pop.
Perché se è vero che siamo un sito di serie, è altrettanto vero che Stan Lee è l’uomo che rese davvero seriali i fumetti. A lui infatti si deve un processo di progressiva umanizzazione degli eroi, che nel mondo DC erano ancora semidèi pressoché infallibili, pronti a far trionfare la giustizia ogni mese, e che lui rese fragili, problematici, spesso tristi o depressi. Quel cambio di paradigma venne poi diluito in storie lunghe e progressive, ispirate proprio a certi serial televisivi, e servì a cambiare profondamente il modo in cui veniva inteso e apprezzato il fumetto supereroistico americano.
Naturalmente la faccenda non è così netta e precisa, esistono sfumature ed eccezioni. Ma il succo è quello lì, l’essenza di una serialità che scava nella psicologia dei personaggi e li fa dialogare in modo più vero e intenso con i lettori. Che poi è esattamente ciò che cerchiamo oggi nelle serie tv, e in quella narrazione protratta nel tempo che spesso passa per semplice intrattenimento, ma che noi sappiamo benissimo essere una palestra per il nostro gusto e le nostre coscienze, così come i pupazzotti colorati di Stan Lee sono ormai diventati archetipi capaci di affrontare e rielaborare incessantemente la realtà che li circonda e che senza di loro, a quasi sessant’anni di distanza, sarebbe certamente diversa.
Quindi insomma, caro Stan, non ci siamo mai conosciuti e operavamo in ambiti un po’ diversi, però insomma, ci si capiva. Siamo un po’ uguali dai, anche se tu hai rivoluzionato la pop-culture mondiale e noi no. Però noi a quarant’anni ci dobbiamo ancora arrivare, dacci tempo e vedrai che non ti deluderemo!