Castle Rock: la serie tratta da Stephen King, Dio grazie, sembra un romanzo di Stephen King di Diego Castelli
L’atteso debutto di Castle Rock ci restituisce un prodotto solido, appassionante, ma soprattutto fedele allo stile del Maestro
QUALCHE SPOILERINO SUL PRIMO EPISODIO, MA POCA ROBA
Sembra strano essere qui a fine luglio a parlare di una delle serie più attese dell’anno, ma d’altronde le piattaforme web stanno cambiando tutto il modo di intendere la distribuzione e la fruizione delle serie tv, quindi forse non ci dobbiamo stupire se un pezzo così importante della serialità del 2018 finisce col debuttare in un momento solitamente dedicato alla vacanza e alle pennichelle.
Sul fatto che Castle Rock fosse molto attesa c’è poco da dire. Fin dall’annuncio, nel febbraio 2017, di una serie prodotta da JJ Abrams e basata su tutta l’opera letteraria di Stephen King, fan e meno fan del maestro del brivido avevano drizzato le orecchie e cominciato a porre domande, non ultima quella tipo “cioè nel senso che ci sarà IT che combatte contro Roland de La Torre Nera, e poi insieme finiscono sotto una cupola nei pressi dell’Overlook Hotel?”
Nel corso dei mesi, con la comparsa dei primi trailer, si era capito che l’approccio sarebbe stato un tantinello meno pacchiano, ma la curiosità è rimasta tale e quale, così come il timore di chi sa benissimo che romanzi e racconti di King hanno fatto da base per veri capolavori del cinema, ma anche per discrete ciofeche.
Ora che abbiamo per le mani i primi tre episodi (ma per evitare eccessivi spoiler ci concentreremo soprattutto sul primo), si possono cominciare a tirare alcune somme, fra molti pregi, qualche difetto, e un punto d’onore abbastanza importante.
Un po’ di trama e di ambientazione.
Come ormai si era capito da tempo, Castle Rock racconta una storia sua, originale, mai apparsa nei libri di King. Quindi, se mai ci fosse bisogno di dirlo, non serve essere cultori dello scrittore americano per capirci qualcosa. Allo stesso tempo, chi conosce la sua opera almeno in parte, troverà facilmente una grossa quantità di riferimenti non imprescindibili, ma comunque preziosi per farsi venire i brividoni. Per esempio, il fatto che gran parte della nuova storia giri intorno alla prigione di Shawshank – pluricitata nei romanzi di King e “protagonista” del bellissimo racconto Rita Hayworth and Shawshank Redemption, poi diventato l’altrettanto bellissimo film Le Ali della Libertà – è già di per sé un dettaglio molto gradito ai fan. Ma quando poi, in un brevissimo momento del pilot, un personaggio cita distrattamente un vecchio direttore suicida della prigione, richiamando esattamente il racconto originale e innervandone la storia in questo nuovo prodotto, ecco che lì si va proprio in sollucchero.
Protagonista di Castle Rock, anche se la storia è abbastanza corale, è Henry Matthews Deaver (André Holland), un avvocato penalista specializzato nella difesa dei condannati a morte, che torna nella città natale di Castle Rock a distanza di anni da un brutto fatto di cronaca, tuttora controverso: da bambino, Henry era sparito da casa per undici giorni, per poi essere ritrovato sano e salvo dallo sceriffo della città, Alan Pangborn (uno dei pochi personaggi della serie a comparire effettivamente in alcuni lavori di King). Nel frattempo il padre adottivo era morto, la città incolpava a vario titolo il ragazzino, e alla fine Henry se n’era andato, lasciando indietro la madre a invecchiare e a soffrire di progressiva demenza senile. Ormai adulto e realizzato (per quanto amareggiato dalla continua morte dei suoi clienti) Henry torna a casa dopo che dalla prigione di Shawshank una guardia (Dennis Zalewski, interpretato dal Noel Fisher di Shameless) gli fa una telefonata anonima per avvertirlo che un ragazzo strano e misterioso (il Pennywise nel recente IT, Bill Skarsgård), sbucato dal nulla dentro una gabbia in un’ala dismessa della prigione, ha fatto il suo nome. Il tutto a pochi giorni dal suicidio dell’ex direttore del carcere, Dale Lacy, che ha il faccione indimenticabile di Terry O’Quinn di Lost.
Scusate, l’ho fatta un po’ lunga. Ma ci siamo, giusto? Direttore suicida, ragazzo e inquietante, avvocato dal passato doloros che torna nella città natale. Più o meno il setting è questo, a cui aggiungere la figura di Molly, una donna con strani poteri psichici che appena vedere arrivare Henry in città mostra di conoscerlo e di avere con lui una qualche particolare connessione.
Ma insomma, è bella sta Castle Rock? È una bomba? Disdiciamo o no la prenotazione a Riccione per stare a casa a guardarla?
Castle Rock ha sicuramente il pregio di essere una serie di immediata e riconoscibile solidità. È un mystery a metà fra giallo, horror e soprannaturale, ne ha tutte le caratteristiche, e le mette in scena in modo semplice e accessibile. Contemporaneamente, fa uno sforzo in più per allontanarsi dalla potenziale banalità, grazie a una sceneggiatura, un montaggioe una regia (di Michael Uppendahl, veterano seriale con Mad Men, Legion, Fargo e altre nel curriculum) che badano al sodo, anzi al sodissimo, affinando ogni inquadratura e ogni scambio di battute affinché le informazioni da veicolare e il tono da costruire riempiano ogni interstizio, senza lasciare momenti vuoti ma senza nemmeno debordare nel didascalico. Il pilot è un orologio costruito a puntino, con personaggi precisi e ben torniti, citazioni sottili, e una buona inquietudine di fondo. Magari non ha uno stile ricercato alla Sharp Objects, ma compensa con meno dispersione e più sugo. Già così è grasso che cola.
È chiaro che il rovescio della medaglia è la potenziale delusione di chi, sentendo parlare di questa serie da un anno e mezzo, si aspettava un tornado senza se e senza ma. Ecco, sono certo che qualcuno non sarà d’accordo, ma al momento Castle Rock non sembra essere la serie con cui spammare tutti gli amici costringendoli alla visione. Non è The Handmaid’s Tale, per intenderci, non imprime un’accelerazione decisiva al nostro modo di concepire le serie tv, e partendo da un corpus letterario ormai mitico come quello di Stephen King, qualcuno potrebbe anche sottolineare malignamente che la montagna ha partorito un topolino.
Mi sento di dire, però, che questo giudizio arriverà più facilmente da chi ha “subito” il passaparola martellante di questi mesi, senza aver mai letto niente di King. Perché per i fan, invece, arriva il punto d’onore di cui dicevo prima, un elemento moooolto importante nel giudizio finale (che poi finale non è, siamo all’inizio, ma ci siamo capiti).
C’è una cosa che Castle Rock azzecca alla grande, ed era forse l’unica che contava veramente: è fedele allo stile del Re. A un lettore di King basterà il pilot per rendersi conto, istintivamente, che siamo in quel mondo lì. Se anche Castle Rock non racconta una specifica storia già narrata dal buon Stefano, né mescola in maniera esplicita grandi personaggi dell’opera dell’autore, allo stesso tempo riesce a sembrare una perfetta emanazione del suo stile e della sua poetica.
A questa sensazione corrisponde sicuramente l’approccio classico e in qualche modo “chiaro” di cui si è detto prima: in tutta la sua carriera, Stephen King ha sempre prediletto storie dritte e lineari, pienamente comprensibili nella forma e nella sostanza, la cui mitologia traspirava dalle parole in maniera sorprendentemente naturale. Ma questo da solo non basterebbe.
Castle Rock tocca gli stessi temi, le stesse ambientazioni, e gli stessi miti di tanta opera kinghiana. Ambientata come di consueto nello stato del Maine, si porta dietro un costante senso di tragedia imminente, un’oscurità profonda e impalpabile che si nutre in primo luogo dell’immobilità della città. Quando Henry torna a casa, l’impressione che ha è che sia cambiato tutto (la madre peggiorata, la tomba del padre spostata) ma allo stesso tempo che non sia cambiato niente, come se Castle Rock fosse immutabile nella sua fangosa staticità. Un non-posto ormai sparito dalle mappe, in mezzo all’America ma fuori dalla vera e propria civiltà. Un paesaggio boscoso e campagnolo, eppure grigio e funestato da forze oscure. Un tema, quella della città maledetta, che trova la sua massima espressione proprio nel citato IT, la cui famosissima Derry sembra avere molto a che spartire con Castle Rock, anche se qui per ora non si fa menzione di demoni in forma di pagliacci.
L’oscurità di Castle Rock, ulteriormente esplicitata negli episodi successivi, pare sempre superiore alle forze del singolo umano, eppure gli eroi della storia sono tali perché chiamati, in un modo o nell’altro, a cambiare le cose, a spezzare un circolo buio di cui non si riescono a vedere i contorni, ma che è innegabilmente lì, a stringere le caviglie degli abitanti, della prigione, della polizia. È la stessa chiamata a cui devono rispondere i bambini di Derry, o Andy Dufresne in Shawshank Redemption, o il figlio di Jack Torrence in Shining: tutti uniti dal compito di riconoscere e poi rompere il ciclo della morte e del Male, nelle sue varie declinazioni.
In questo Castle Rock è purissimo Stephen King, e non so se era legittimo sperare di meglio.
Perché seguire Castle Rock: un mystery preciso e con tutte le sue cose a posto. Ma soprattutto, una serie che rispecchia alla perfezione lo stile di Stephen King in tutto quello che conta.
Perché mollare Castle Rock: i non-fan del Maestro potrebbero trovarla una serie sì ben costruita, ma non così epocale come erano stati portati a credere.