Outcasts di Diego Castelli
Ammazza sti inglesi, pure la fantascienza sanno fare…
Di solito è il Villa a occuparsi delle serie inglesi, per una sua passione verso il sottoproletariato urbano, le sceneggiature sporcate dal calcolato disordine, il sapore sperimentale di molti prodotti d’oltremanica rispetto alla media degli show americani. Questi suoi interessi, però, l’hanno progressivamente allontanato dal genere fantascientifico, che ha poco a che fare con prostitute dal cervello fino, comici inventori di nuove tipologie di trash, rivisitazioni ardite di vecchi investigatori. (Qualcuno mi dirà: e Doctor Who? E Torchwood? Ora non siate pignoli su, dovevo pur iniziare il pezzo in qualche modo…)
Ecco il motivo, dunque, per cui sono io a parlarvi di Outcasts, miniserie in otto parti iniziata lo scorso 7 febbraio su BBC One. Al contrario del mio compare, io sono sempre un po’ freddo nei confronti della serialità british, ma stavolta il pilot in questione mi ha lasciato piacevolmente sorpreso.
La serie racconta le vicende di una comunità umana, fuggita da una Terra ormai invivibile, e giunta dopo cinque anni di viaggio spaziale su un pianeta abitabile ribattezzato Carpathia, come la nave che salvò i sopravvissuti del Titanic (ovviamente a voi verrebbe da leggerla come “carpazia”, mentre loro la pronunciano come un buffo “carpesia”, con la s tra i denti). Dopo un decennio di esilio forzato, i profughi sono riusciti a costruire una città decente, Forthaven, nella quale cercano di tirare a campare ricostruendo una parvenza di società. Il tutto senza avere più notizie (o quasi) della cara vecchia Terra. L’attenzione, ovviamente, si concentra su un piccolo gruppo di personaggi principali, di cui seguiamo le peripezie.
Outcasts fa parte del ramo drama-oriented della fantascienza. Ciò significa che i suoi punti di forza non sono i grandi effetti speciali, le battaglie intergalattiche (che non ci sono), o la ricerca ossessiva del bizzarro e del meraviglioso. Quello che conta, come in una qualunque serie drammatica, sono i rapporti tra i personaggi, uniti alle riflessioni di carattere sociale, etico e filosofico favorite dalle condizioni estreme in cui i protagonisti si trovano ad agire: i lunghi viaggi nello spazio, la vita su un pianeta sconosciuto, la paura del futuro e dell’ignoto, il senso di perdita e abbandono al pensiero di ciò che si è lasciato a (quasi letteralmente) anni luce di distanza, e via dicendo.
Per chi è appassionato di questo tipo di fantascienza, bastano poche parole per accendere nella mente concetti e visioni dal grande potere evocativo, ma serve comunque una scrittura efficace per rendere emotivamente credibile un contesto che, evidentemente, realistico non è.
Gli autori di Outcasts ci sono riusciti con sorprendente facilità: nei primi dieci minuti abbiamo già tutti gli strumenti per capire dove siamo, cosa facciamo, cosa dobbiamo provare. Non ci viene detto “tutto”, ovviamente, ma “quanto basta” per presentare i protagonisti, creare una precisa atmosfera, evidenziare certi rapporti-chiave. Soprattutto, scopriamo piccoli ma significativi dettagli, coi quali immaginare un passato e un presente ricco di eventi, che però ci vengono solo suggeriti, sussurrati, giusto per creare curiosità e per dare al mondo della storia una precisa consistenza (si pensi ai riferimenti – volutamente vaghi – allo sfortunato destino della Terra, argomento che stuzzica immediatamente il nostro interesse).
A tratti, per tono generale, ambientazioni e stile, sembra di essere in una puntata di Battlestar Galactica, il vero capolavoro della fantascienza televisiva recente. Outcasts non ha la vena mistico-religiosa di Battlestar, ed è anche più povero a livello meramente tecnico, ma ne condivide molti intenti narrativi e d’atmosfera.
Soprattutto, nel primo episodio regala largo spazio proprio a uno degli attori protagonisti di Battlestar Galactica, quel Jamie Bamber che conoscevamo come soldato coraggioso e affidabile, e che qui diventa un Esploratore paranoico e pericoloso, segnato nello spirito da avvenimenti e progetti che il pilot non chiarisce, e che verranno certamente approfonditi in seguito.
Già sul finire della puntata arriva un’altra faccia nota al grande pubblico: si tratta di Eric Mabius, che molti di voi ricorderanno come il bel Daniel di Ugly Betty, un uomo che ho avuto il piacere di incontrare e che ricorderò sempre per le assurde dimensioni della testa (qui trovate una foto del 2007 a riprova di questo fatto: io sono quello a destra, come potete immaginare, e vi garantisco che non ho un cranio piccolo).
Oltre a queste due star, troviamo diversi bravi attori inglesi, come Liam Cunningham e Daniel Mays. Tutta gente che ha un accento assai curioso per chi è abituato a seguire i telefilm americani, ma che sa il dannatissimo fatto suo quando si tratta di recitare come si deve.
Non dico altro. Outcasts vive anche di alcune sorprese, di personaggi che arrivano e altri che se ne vanno inaspettatamente, ed è meglio evitare il rischio spoiler.
Il mio consiglio è di dare un’occasione a un prodotto confezionato con cura, pur in assenza di mezzi tecnici ed economici esorbitanti, e che riesce a catturare l’attenzione quasi subito, mettendo in campo una gran mole di personaggi e tematiche forti, senza per questo risultare dispersivo o frammentato.
Poi oh, sono otto puntate, mica dovete impegnarci tutta la vita…
Previsioni sul futuro: i nostri continueranno a coltivare il loro desiderio di felicità-sul-nuovo-pianeta, desiderio ostacolato da numerose minacce, tanto esterne quanto interne.
Perché seguirlo: ben scritto, ben recitato, pieno di ottimi spunti e interessanti possibilità di sviluppo.
Perché mollarlo: sempre fantascienza è, quindi se proprio non mandate giù i viaggi spaziali, le astronavi e la paura degli alieni cattivi, lasciate perdere.
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